effusissime delectati

di Antonio Sparzani

Vi sarete chiesti senz’altro, voi, fedeli o non fedeli lettori di nazione indiana, la ragione del nome Murene, scelto per la nostra elegante deliziosa collana cartacea (che in un prossimo futuro porterà a tutti noi nuove meraviglie), e sarà bene quindi cominciare a dirvene almeno una, di queste ragioni, ché dalla icosaedrica mente indiana, come capite da questo non casuale aggettivo — e anche dall’illustrazione finale di questo post, molte ne sono state prodotte e addotte.
Quelli di voi, certo assai numerosi, che la sera per conciliare la pace delle ore notturne, scelgono di affidarsi ai classici, avranno sicuramente sfogliato I Saturnali di Ambrogio Teodosio Macrobio, scrittore e funzionario imperiale del V° secolo, nativo d’Africa e pagano. In quest’opera che, nell’ottima — che non se ne fan più così — edizione UTET del 1967, con testo a fronte, occupa più di 800 agili paginette, si raccontano le vicende più varie a proposito delle abitudini e dei gusti di molti illustri, o meno illustri, cittadini romani dei secoli precedenti.
E tra queste vicende balza agli occhi quella di Lucio Licinio Crasso; così infatti si esprime Macrobio a proposito della famiglia dei Licinii:
«quos [riferito ai Licinii, n.d.r.] Murenas cognominatos, quod hoc pisce effusissime delectati sint, satis constat.»
Insomma risulta che questa famiglia fosse stata soprannominata “I Murena” in quanto proprio questo pesce procurava loro uno strabordante diletto. Tanto è vero che, così si esprime Macrobio, nella traduzione di Nino Marinone

«Lucio Crasso, il famoso oratore, della cui fama di persona seria ed importante ci dà notizia anche Cicerone [Cicerone amava considerarlo suo maestro, n.d.r.]. Tuttavia questo Crasso, che tenne la carica di censore con Gneo Domizio, per quanto fosse stimato eloquente sopra ogni altro e avesse il primo posto fra i più illustri cittadini, quando gli morì una murena nella peschiera di casa sua, si mise in lutto e la pianse come una figlia. Ciò non passò inosservato: il suo collega Domizio glielo rinfacciò in Senato come una colpa disonorevole, ma Crasso non arrossì di ammetterlo, anzi, agli dèi piacendo, se ne gloriò come censore vantandosi di aver compiuto un’azione ispirata a pietà ed affetto». (Saturnalia, III, XV)

Vedete dunque che da ormai più di duemila anni le murene sono sommamente stimate per il loro valore e la loro bellezza. Ma voi vorrete anche sapere come io sia arrivato ad una così succulenta notizia, dato che sospetterete facilmente che non sia io quello che tutte le sere cerca il riposo tra le braccia di Macrobio.
E in verità tengo soprattutto a dirvi il percorso di questa scoperta, perché mi consente di parlare invece di un testo, che risale a poco più di un secolo fa, ma che considero tuttora una lettura straordinariamente emozionante: voglio dire la Lettera di Lord Chandos, scritta da Hugo von Hofmannsthal (già qui in nazione indiana, mentre qui trovate il testo bilingue) nell’agosto del 1902, e pubblicata sul giornale letterario berlinese der Tag il 18 ottobre dello stesso anno, fingendola scritta da un certo lord Chandos, vissuto ai tempi di Francesco Bacone, cui è riverentemente indirizzata.
Col pretesto di una rinuncia complessiva al mondo delle lettere e di una totale abdicazione alla scrittura e all’uso comune della parola, in realtà Hofmannsthal inaugura una scrittura nuova e alta nella quale riesce a esprimere come forse mai fino a quel momento era stato fatto, un senso cosmico della natura vista allo stesso tempo come un grande tutto e d’altro lato anche come l’insieme dei suoi più apparentemente insignificanti dettagli. Ecco a voi il passo, verso la fine della lettera, in cui Hofmannsthal riprende la vicenda di Crasso e della sua murena:

«E talvolta mi paragono a Crasso, l’oratore di cui si racconta che prese ad amare così fuor di misura una murena addomesticata del suo laghetto, un pesce ottuso, muto, dall’occhio rosso, da divenire la favola della città; e quando un giorno in Senato Domizio lo biasimò per aver pianto sulla morte di quel pesce, nell’intento di farlo passare per un mezzo matto, Crasso gli rispose: “Allora io ho fatto per la morte del mio pesce ciò che tu non hai fatto per la morte né della tua prima né della tua seconda moglie”.
Non so quante volte questo Crasso con la sua murena mi torni alla mente come un’immagine riflessa di me stesso, oltre l’abisso dei secoli. Ma non per la risposta data a Domizio. Quella risposta gli guadagnò il favore di quanti prima ridevano di lui, di modo che la cosa fu ridotta a un motto di spirito. Ciò che mi tocca è la cosa in sé, la cosa che sarebbe rimasta la stessa anche se Domizio avesse pianto per le sue mogli lacrime di sangue del più genuino dolore. Crasso gli starebbe pur sempre di fronte, con le sue lacrime per la sua murena. E a questa figura, di cui il ridicolo e la pochezza saltano agli occhi nel consesso di un Senato strapotente e occupato con i problemi più alti, a questa figura un qualcosa d’imprecisabile sospinge il mio pensiero in guisa tale, che mi appare affatto insensata nel momento che mi provo ad esprimerla con parole.
L’immagine di questo Crasso è a volte nel mio cervello, la notte, come una scheggia attorno alla quale tutto suppura, pulsa e ribolle. Allora mi sento come se io stesso entrassi in fermentazione, e buttassi vesciche, vampe e turgori. E tutto è una sorta di febbrile pensare, ma pensare in un elemento che è più incomunicabile, più fluido, più ardente delle parole. Sono vortici, ma a differenza dai vortici della lingua, questi non paiono condurre a sprofondare nel vuoto, bensì al contrario in qualche modo mi riportano in me stesso e nel più riposto grembo della pace.» (trad. it. di Marga Vidusso Feriani, BUR 1988)

Questo è il tono della lettera, che del resto si era aperta con un richiamo forte a una totale, ubriacante, comunione con la realtà naturale

«Per farla breve: allora, in una sorta di costante ebbrezza, tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità: il mondo spirituale e quello fisico non mi sembravano giustapporsi, né l’essere cortese e quello animale, né l’arte e la non arte, la solitudine e la compagnia; in tutto io sentivo la natura, nelle deviazioni della follia come nelle estreme raffinatezze di un cerimoniale spagnolo; nelle goffaggini di giovani contadini, non meno che nelle più dolci allegorie; e in tutta quanta la natura io sentivo me stesso; quando nella mia capanna di caccia tracannando latte schiumante che un uomo irsuto mungeva in un secchio di legno da una bella mucca dall’occhio dolce, provavo la stessa sensazione di quando, seduto sulla panca inserita nella finestra del mio studio, cavavo da uno scritto dolce e schiumante nutrimento al mio spirito.»

Fa tutto parte del crepuscolo dell’Austria felix, naturalmente, che tuttavia sapeva ancora mandare accecanti bagliori.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.