Matria, Patria, Dismatria
di Silvia Contarini
Quest’estate, volendomi dedicare a letture impegnate, invece di Cinquanta sfumature di grigio ho comprato (la versione gratuita non è ancora disponibile online) Timira (sottotitolo “romanzo meticcio”), di Wu Ming 2 e Antar Mohamed. Ho cominciato a leggere con interesse, ho finito con irritazione, non solo per la qualità mediocre, ma anche per il buonismo che trasuda, quello di chi sta dalla parte giusta al momento giusto, magari cavalcando l’onda. Il romanzo ha suo malgrado il merito di sollevare alcune questioni.
Il collettivo Wu Ming ripete da anni di essere un cantastorie di storie di altri che sono storie di tutti perché l’opera è sempre collettiva. Timira è la storia di un’italo-somala, Isabella Marincola, che la sua storia avrebbe voluto scriverla assieme a Wu Ming2, ma gli anni son passati, l’anziana Isabella è morta, e il romanzo meticcio lo hanno scritto il figlio e Wu Ming2, prendendo cura di avvertire il lettore: “questa è una storia vera… comprese le parti che non lo sono”. Destinati al lettore che ancora non avesse chiaro cosa sia una narrazione collettiva sono anche i “titoli di coda”, oltre venti pagine con centinaia di informazioni sugli ignari contribuenti al collettivismo involontario: oltre a qualche maître à penser (Agamben, Virno), molti siti, film, canzoni e libri, e soprattutto – perché la storia vera o inventata che sia va documentata – documenti d’archivio e una nutrita bibliografia su colonialismo, madamato, Somalia. Manca però qualcosa di importante: sono quasi del tutto assenti gli scrittori del postcoloniale italiano, eppur noti a Wu Ming2 che li menziona in un’intervista ma non nel libro; all’unica citata, Shirin Ramanzanali Fazel, andavano aggiunti almeno Igiaba Scego, Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Carla Macoggi, Kaha Mohamed Aden, e andava fatto rimando alla letteratura postcoloniale.
Il riconoscimento del debito, a mio parere essenziale non tanto per l’ispirazione di scene o personaggi ma per il fatto stesso di scrivere oggi questo romanzo, sarebbe stato giusto: con la pubblicazione di Timira, Wu Ming si inserisce volontariamente ed esplicitamente nell’ambito della letteratura migrante e postcoloniale italiana che si sta imponendo all’attenzione di lettori e critici, in Italia e all’estero, proprio grazie agli scrittori di cui sopra e ad altri. Credo si tratti di scelta e non di dimenticanza da parte di Wu Ming. In una scena del romanzo, Isabella Marincola, cittadina italiana, di madre e marito somali, che abita a Mogadiscio ma non parla somalo, incontra Siad Barre e si lancia in una dichiarazione d’amore per la sua matria (in corsivo nel testo e ripetuto più volte), la Somalia, paese della madre, mentre l’Italia, paese del padre, è la patria. Ora, in un bel racconto del 2005, intitolato Dismatria, Igiaba Scego si interroga – in maniera ben più profonda – sul legame che unisce alla terra madre e sull’esilio al femminile.
Il caso vuole che tra le mie letture estive ci fosse un articolo di Carlo Ginzburg sulla microstoria, in cui si accenna alla “matria history” (storia del mondo femminile che ruota attorno alla madre, alla famiglia, al villaggio) elaborata agli inizi degli anni settanta dallo storico messicano Luis Gonzalez. Nella mia immensa ignoranza, credevo che matria fosse un neologismo! Consulto allora internet e scopro, su wikipedia spagnolo, che matria è anche concetto di matrice femminista usato per proporre una lettura nuova di concetti vecchi come identità, razza, lingua, religione, tradizione, sesso (linea della madre, opposta a linea del padre/patriarcato). Anche in italiano, scopro ancora, matria è lungi dall’essere un neologismo, è anzi una nozione tornata in auge di recente, ma in un senso diverso. Nel 1978, uscì un libro di Sergio Salvi a difesa delle lingue minoritarie intitolato Patria e matria. Dalla Catalogna al Friuli, dal Paese Basco alla Sardegna: il principio di nazionalità nell’Europa occidentale contemporanea; sulla scia, la rubrica “patria e matria” consultabile sul sito www.eleaml.org, a difesa di cultura e lingua del Meridione (versus Italia unita: colonialismo interno…). E Rigoni Stern avrebbe detto: “è patria, cioè terra dei padri, la Nazione; ma la terra più dolce, la terra madre o matria, è quella delle proprie origini”. Infine, le celebrazioni dell’Unità italiana hanno ispirato al filosofo Massimo Cacciari la riflessione seguente: la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Gli fa eco Tullio De Mauro, in un’intervista all’Unità intitolata “Dalla Patria alla matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani” (intervista disponibile sul sito del Partito Democratico).
Insomma, sembrano tutti d’accordo per buttar via la Patria, obsoleto riferimento al padre che trasmetteva la cittadinanza e pericoloso rimando al sentimento nazionalistico, e sostituirvi la Matria, legame alla terra natia e/o alla lingua delle origini.
A me, però, tutto questo entusiasmo per la terra madre e la lingua madre, mi lascia perplessa. Perché la matria addolcisce il concetto (si sa, il femminile è dolce) e sembra renderlo più frequentabile, ma aggira la questione delle radici e dell’appartenenza identitaria, e quasi rinsalda legami ineluttabili piuttosto che favorire la scelta.
Ecco, la lettura di Timira se non altro mi è servita a questo: riflettere sull’interessante nozione di matria. La problematica è assente nel romanzo? L’opera collettiva, ribatterebbe Wu Ming, include la partecipazione del lettore. Faccio parte anch’io della collettività automatica? In tal caso dichiaro di assumere ogni responsabilità solo per parole e fatti a me attribuibili.
Sarà, ma a me la dichiarazione di amore per la “matria” da parte di Isabella/Timira è sembrata del tutto sarcastica, anche alla luce di quel che pensa, dice e fa nel resto del romanzo.
Credo che si tratti di un giudizio un po’ troppo severo. I romanzi non sono saggi e non devono contenere tutto, omaggiare tutto, trasudare tutto. La collettività della scrittura di Wu Ming (e in questo caso anche di Antar Marincola) non è automatica – per fortuna. E questo pezzo, che è comunque molto rilevante di fronte al buonismo (questo sì) di tante altre recensioni positive a priori, ne è dimostrazione. [su Matria/Patria/Dismatria invece sono pienamente d’accordo, e grazie per le ulteriori ricerche]
Lorenzo
Curiosità estiva: perché è un libro di «qualità mediocre»?
Curiosità maniaca: cosa si intende per «narrazione collettiva»? L’elenco dei «contribuenti» sta a significare che nel libro sono inseriti passi o brani altrui? E se è così, sono presi paro-paro o stravolti?
Curiosità bastarda: ma il «buonismo che trasuda» da questo libro non è, in fondo, lo stesso buonismo travestito da cattivismo che anima i libri dei Wu Ming?
Curiosità sudata: se la mia patria è il mondo intero, la mia matria cos’è?
PS I: la lingua madre è sempre una puttana, disse Artaud; alla fine, va sempre con chi la paga.
PS II: il livello «Messico del Sud» di Tomb Raider ha un bug.
Io ho letto Timira. Penso che sia un romanzo bellissimo. Me lo sono goduto proprio. Anche perché avendo incontrato Isabella Marincola l’ho rivista nelle pagine di questo libro. In tanti nella mia famiglia hanno conosciuto Isabella e tutti quelli che hanno letto il libro ci hanno ritrovato dentro Isabella. Io ho anche ritrovato Mogadiscio in questo romanzo. Ci sono scene nel libro che mi hanno riportato alla memoria dei ricordi che credevo perduti. E poi il senso di assenza e di apocalisse durante quei primi giorni di guerra civile sono stati resi benissimo. Decisamente un bel libro.
Ho voluto sottolineare questo perché un po’ mi sono sentita chiamata in causa da questo articolo. Io penso che esista una certa circolarità nella letteratura. I temi, le figure, le sensazioni passano da un libro ad un altro e si modellano a seconda dell’anima dell’autore o dell’autrice. Io non mi sento l’inventore del concetto di Matria. Immagino che la mia riflessione venga da lontano. Chissà da dove. Forse dai racconti nomadi di mia madre, forse dagli antichi egizi con cui i somali hanno tante cose in comune. Chissà. Niente è davvero originale nel mondo, ma tutto di fatto è una rielaborazione. Questo è il bello del nostro mestiere. Se pensassimo che concetti, parole, figure fossero di nostra proprietà personale allora sarebbe la fine di tutto. Allora anche Dante Alighieri sarebbe un copione…
Beh si sa, Asin Palacios, l’ha dimostrato ampiamente che la Divina Commedia ha molti legami con il libro della Scala di Maometto, una leggenda islamica che probabilmente Dante ha conosciuto tramite Brunetto Latini.
Ci sono delle similitudini incredibili fra le due storie.
Ma ecco rimangono due storie completamente diverse l’una dall’altra.
La letteratura è passaggio, contaminazione, mescolamento, casino. Ed è un bene che sia così. Io non posso parlare a nome delle altre autrici citate nell’articolo, ma io Igiaba non mi sento defraudata o scippata. Penso che ci sono concetti che sono nell’aria e ognuno di noi rielabora a seconda delle sue sensibilità, a seconda dei suoi interessi.
Io personalmente, se mi devo autoanalizzare, penso che devo tanto a Cervantes…per esempio per un mio racconto salsicce mi sono ispirata idealmente ad una scena del Quijote, esattamente una scena della seconda parte, quando Sancho Panza incontra il suo vicino Ricote in compagnia dei lanzichenecchi. Ricote è un morisco, un uomo di origine musulmana colpito dall’editto di espulsione del 1609. Per rientrare in patria (o matria fate voi) deve dotarsi di un’altra identità. Per questo Sancho lo vede bere in pubblico. In molti racconti del 1600 i musulmani e gli ebrei (anche loro colpiti da analogo editto di espulsione) mangiavano vistosamente carne di maiale (proibita dalla loro religione) in pubblico. Io nella mia riflessione tutta privata ho pensato “anche noi figli di migranti dobbiamo fare vistosamente qualcosa in pubblico” per poter essere considerati italiani e avere gli stessi diritti di cittadinanza. E per questo ho usato la metafora della carne di maiale proprio come nei racconti spagnoli che avevo letto all’università. Ho copiato Cervantes? o copiato gli spagnoli? Non credo. Sento di aver fatto come Dante (con meno arte del maestro naturalmente. Non mi paragono a Dante per carità…chi può? Nessuno per ora). C’era qualcosa nell’aria e io naturalmente me la sono presa. Quello che è uscito fuori alla fine è qualcosa di completamente nuovo, mio.
Idem hanno fatto Wu Ming 2 e Antar Mohamed.
è stata una collaborazione la loro. Una collaborazione alla pari. Antar in questo caso non è un testimone passivo dei fatti (come molti accademici pensano…e lì si il pensiero è coloniale per non dire peggio), ma un costruttore. La cosa bella di questo libro è che le due anime, quella di Giovanni e quella di Antar, si sono fuse insieme e tu non sai chi ha creato cosa. Per questo e per mille altri motivi ho apprezzato Timira. inoltre (e qui a parlare è la mia anima da studiosa) i Titoli di coda sono davvero utili. W Timira quindi e speriamo di vedere nel futuro più libri così in giro. In un paese, l’Italia, dove temi come la migrazione, l’ibridazione, il passato coloniale sono silenziati, un libro come Timira non è solo utile, ma necessario.