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. . . con la solerzia languida di dita che controllano l’accordatura di un’arpa . . .

Gabriel Garcia Marquez
Gabriel García Márquez: Aracataca (Colombia), 6 marzo 1927 – Città del Messico, 17 aprile 2014.
Incipit de La mala ora, uno dei suoi libri più belli:

Padre Ángel si sollevò con uno sforzo solenne. Si stropicciò le palpebre con le ossa delle mani, scostò la zanzariera di tulle e restò seduto sulla stuoia spelacchiata, assorto per un attimo, il tempo indispensabile per rendersi conto di essere vivo e per ricordare la data e il suo riscontro nel martirologio. “Martedì quattro ottobre” pensò; e disse a voce bassa: «San Francesco d’Assisi».
Si vestì senza lavarsi e senza pregare. Era grande, sanguigno, aveva una pacifica figura di bue mansueto, e si muoveva come un bue, con gesti densi e tristi. Dopo aver corretto l’abbottonatura della tonaca con la solerzia languida di dita che controllano l’accordatura di un’arpa fece scorrere il paletto e aprì la porta del patio. I nardi sotto la pioggia gli fecero ricordare le parole di una canzone.
«”Il mar crescerà con le mie lacrime”» sospirò.
La stanza da letto comunicava con la chiesa mediante un porticato interno bordato di vasi di fiori e rincalzato con mattoni liberi; negli interstizi cominciava a spuntare l’erba d’ottobre. Prima di avviarsi in chiesa, padre Ángel entrò nel gabinetto. Orinò abbondantemente, trattenendo il respiro per non sentire l’intenso odore ammoniacale che gli spremeva le lacrime. Poi uscì nel porticato rammentando: “Mi porterà la barca nei tuoi sogni”. Sulla stretta porticina della chiesa sentì per l’ultima vo1ta il vapore dei nardi.
Dentro c’era cattivo odore. Era una navata lunga, pure rincalzata con mattoni liberi, e con una porta sola sulla piazza. Padre Ángel entrò direttamente nella base del campanile. Vide i pesi dell’orologio a più di un metro sulla sua testa e pensò che c’era corda ancora per una settimana. Le zanzare lo aggredirono. Ne schiacciò una sulla nuca con una manata violenta, e si ripulì la mano sulla corda della campana. Poi sentì, in alto, il rumore viscerale del complicato ingranaggio meccanico, e subito dopo — sordi, profondi — i cinque rintocchi delle cinque dentro il ventre.
Aspettò che l’ultima risonanza svanisse. Allora afferrò la corda con le mani, se l’arrotolò ai polsi e fece suonare i bronzi rotti con una convinzione perentoria. Aveva compiuto 61 anni. L’esercizio delle campane era troppo violento per la sua età, ma aveva sempre suonato messa di persona, e quello sforzo gli riconfortava lo spirito.
Trinidad spinse la porta di strada mentre le campane suonavano, e si diresse verso l’angolo dove la sera prima aveva preparato le trappole per i topi. Trovò qualcosa che le cagionò nello stesso tempo ripugnanza e piacere: un piccolo massacro.
Aprì la prima trappola, afferrò il topo per la coda con l’indice e il pollice, e lo buttò in una scatola di cartone. Padre Ángel finì di aprire la porta sulla piazza.
«Buongiorno, padre» disse Trinidad.
Lui non avvertì la sua bella voce baritonale. La piazza desolata, i mandorli addormentati sotto la pioggia, il paese immobile nell’inconsolabile albeggiare d’ottobre gli provocarono un senso di abbandono. Ma quando si fu abituato al rumore della pioggia intese, in fondo alla piazza, nitido e un po’ irreale, il clarinetto di Pastor. Soltanto allora rispose al buongiorno.
«Pastor non era con quelli della serenata» disse.
«No» confermò Trinidad. Si avvicinò con la scatola di topi morti. «Era di chitarre.»
«Hanno continuato per un paio d’ore con una canzone scema» disse il prete. «”Il mar crescerà con le mie lacrime” Non fa così?»
«E la nuova canzone di Pastor» disse la donna.
Immobile davanti alla porta, il prete era preda di un’affascinazione istantanea. Per molti anni aveva sentito il clarinetto di Pastor, che a due isolati da lì si sedeva a provare, tutti i giorni alle cinque, tenendo lo sgabello inclinato contro il sostegno della sua colombaia. Era il meccanismo del paese che funzionava a perfezione; per prima cosa, i cinque rintocchi delle cinque; poi, il primo tocco della messa, e poi il clarinetto di Pastor, nel patio della sua casa, che purificava con note diafane e articolate l’aria satura di porcheria di colombi.
«La musica è buona» reagì il prete «ma le parole sono sceme. Le parole si possono rovesciare a diritto e a rovescio ed è sempre la stessa cosa: “Mi porteranno i sogni nella barca”.»
Si girò, sorridendo per la sua trovata, e andò ad accendere l’altare. Trinidad lo seguì. Indossava una vestaglia bianca e lunga, con le maniche fino ai polsi, e la fascia di seta azzurra di una congregazione laica. Aveva gli occhi di un nero intenso sotto il nastro ininterrotto delle sopracciglia.
«Sono rimasti qui attorno per tutta la notte» disse il prete.
«Da Margot Ramírez» disse Trinidad, distratta, facendo risonare i topi morti nella scatola. «Ma stanotte c’è stato qualcosa di meglio della serenata.»
Il prete si fermò e le puntò addosso gli occhi di un azzurro silenzioso.
«Che cosa?»
«Pasquinate» disse Trinidad. E si lasciò scappare una risatina nervosa.

Da: Gabriel García Márquez, Opere, a cura di Rosalba Campra, vol. I, trad. it. di Enrico Cicogna, Mondadori, Milano 1987, pp. 387-89. Qui il testo originale.

3 COMMENTS


  1.  
    [ Discorso pronunciato  a Stoccolma da Gabriel García Márquez, quando ritirò il premio Nobel per la letteratura l’8 dicembre del 1982 ]

    Antonio Pigafetta, un marinaio fiorentino che accompagnò Magellano nel primo viaggio attorno al mondo, durante il suo passaggio attraverso la nostra America meridionale scrisse un resoconto rigoroso che tuttavia sembra un’avventura dell’immaginazione.
    Raccontò di avere visto maiali con l’ombelico sulla schiena e uccelli privi di zampe, le cui femmine covavano le uova sul dorso del maschio, e altri come pellicani senza lingua, i cui becchi sembravano cucchiai. Raccontò di avere visto un mostruoso animale con testa e orecchie di mulo, corpo di cammello, zampe di cervo e nitrito di cavallo.
    Raccontò che il primo nativo incontrato in Patagonia fu messo davanti a uno specchio, e che quel gigante esagitato perse l’uso della ragione per paura della propria immagine. Questo libro breve e affascinante, nel quale già si intravedono i germi dei nostri attuali romanzi, non è affatto la testimonianza più stupefacente sulla nostra realtà di quei tempi. I cronisti delle Indie ce ne lasciarono innumerevoli altre. L’Eldorado, il nostro illusorio paese tanto conteso, figurò in numerose mappe per lunghi anni, cambiando luogo e forma secondo la fantasia dei cartografi.
    Cercando la fonte dell’eterna giovinezza il mitico Álvar Núñez Cabeza de Vaca esplorò per otto anni il Nord del Messico, con una spedizione stravagante i cui membri si divorarono gli uni con gli altri e dalla quale ritornarono solo cinque dei seicento uomini che la componevano. Uno dei tanti misteri che non furono mai decifrati è quello delle undicimila mule, ognuna carica di cinquanta chili d’oro, che un giorno partirono da El Cuzco per andare a pagare il riscatto di Atahualpa e non arrivarono mai a destinazione. Più tardi, nel periodo coloniale, venivano vendute a Cartagena delle Indie galline allevate in terre alluvionali nelle cui interiora si trovavano pietruzze d’oro. Questo delirio aureo dei nostri fondatori ci ha perseguitato fino a poco tempo fa. Ancora nel secolo scorso, la missione tedesca incaricata di studiare la costruzione di una ferrovia interoceanica sull’istmo di Panama giunse alla conclusione che il progetto era realizzabile a condizione che i binari non fossero fatti di ferro, un metallo che scarseggiava nella regione ma d’oro.
    L’indipendenza dalla dominazione spagnola non ci salvò dalla follia. Il generale Antonio López de Santa Anna, che fu tre volte dittatore del Messico, fece seppellire con magnifici funerali la gamba destra che aveva perso nella cosiddetta guerra dei Pasticcini. Il generale Gabriel García Moreno governò l’Ecuador per sedici anni come un monarca assoluto e il suo cadavere fu vegliato, in uniforme di gala e con la corazza delle decorazioni, seduto sulla poltrona presidenziale. Il generale Maximiliano Hernández Martínez, il despota teosofo del Salvador che fece sterminare in una barbara mattanza trentamila contadini, aveva inventato un pendolo per verificare se i cibi fossero avvelenati e fece ricoprire di carta rossa l’illuminazione pubblica per combattere un’epidemia di scarlattina. Il monumento al generale Francisco Morazán, eretto sulla plaza Mayor di Tegucigalpa, è in realtà una statua del maresciallo Ney comprata in un magazzino di sculture usate.
    Undici anni fa, uno degli insigni poeti del nostro tempo, il cileno Pablo Neruda, illuminò con le sue parole questa sala. Da allora, nelle buone coscienze d’Europa, e a volte anche nelle cattive, hanno fatto irruzione con impeto sempre maggiore le spettrali notizie dell’America Latina, questa immensa patria di uomini visionari e di donne memorabili, la cui infinita ostinazione si confonde con la leggenda. Non abbiamo avuto un attimo di tregua. Un presidente prometeico trincerato nel suo palazzo in fiamme è morto combattendo da solo contro un intero esercito, e due disastri aerei sospetti e mai chiariti hanno tolto la vita a un altro presidente dal cuore generoso e a un militare democratico che aveva ristabilito la dignità del suo popolo.
    Ci sono state cinque guerre e diciassette colpi di Stato, ed è venuto alla ribalta un dittatore luciferino che in nome di Dio ha compiuto il primo etnocidio dei nostri tempi nell’America Latina. Nel frattempo, sono morti prima di compiere un anno venti milioni di bambini latinoamericani, che sono più di quanti ne siano nati in Europa dal 1970. I desaparecidos a causa della repressione sono quasi 120mila, che è come se oggi non si sapesse dove siano finiti tutti gli abitanti della città di Uppsala.
    Numerose donne, arrestate quando erano incinte, hanno partorito nelle prigioni argentine, ma si ignora ancora l’identità e il luogo di residenza de loro figli, che le autorità militari hanno dato in adozione clandestina o hanno internato negli orfanotrofi. Per essersi opposti a questo stato di cose, sono morti circa duecentomila uomini e donne in tutto il continente, mentre più di centomila sono stati ammazzati in tre piccoli e volenterosi paesi dell’America centrale: Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Se ciò fosse avvenuto negli Stati Uniti, la cifra proporzionale sarebbe di un milione e seicentomila morti violente in quattro anni. Dal Cile, paese tradizionalmente ospitale, sono fuggite un milione di persone: il dieci per cento della sua popolazione. L’Uruguay, una minuscola nazione di due milioni e mezzo di abitanti che veniva considerato il paese più civilizzato del continente, ha perso nell’esilio un cittadino su cinque.
    La guerra civile nel Salvador ha prodotto, dal 1979, quasi un rifugiato ogni venti minuti. Il paese che si sarebbe potuto creare con tutti gli esuli e gli emigranti forzati dell’America Latina avrebbe una popolazione più numerosa di quella della Norvegia.
    Oso pensare che sia stata questa realtà fuori dal comune, e non soltanto la sua espressione letteraria, a meritare quest’anno l’attenzione dell’Accademia svedese delle Lettere. Una realtà che non è quella di carta, ma vive con noi e determina ogni istante delle nostre innumerevoli morti quotidiane, alimentando una sorgente creativa insaziabile, piena di sventura e di bellezza. Della quale questo colombiano errante e nostalgico non è nulla di più che un numero maggiormente segnalato dalla sorte.
    Poeti e mendicanti, guerrieri e poco di buono, tutte noi creature di quella realtà esagerata abbiamo dovuto chiedere molto poco all’immaginazione, perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita. È questo, amici, il nodo della nostra solitudine.
    E se queste difficoltà confondono noi, che ne condividiamo l’essenza, non è difficile capire perché i talenti razionali di questa parte del mondo, estasiati nella contemplazione della propria cultura, si siano ritrovati senza un metodo valido per interpretarci. È comprensibile che insistano nel valutarci con lo stesso metro col quale valutano se stessi, senza ricordare che le ingiurie della vita non sono uguali per tutti, e che la ricerca dell’identità è difficile e sanguinosa per noi quanto lo è stata per loro.
    L’interpretazione della nostra realtà con schemi che non ci appartengono contribuisce soltanto a renderci sempre più sconosciuti, sempre meno liberi, sempre più solitari. Forse la venerabile Europa sarebbe più comprensiva se tentasse di vederci nel suo stesso passato. Se ricordasse che a Londra occorsero trecento anni per costruire le prime mura e altri trecento per avere un vescovo; che Roma si dibatté nelle tenebre dell’incertezza per venti secoli prima che un re etrusco la innestasse nella storia; e che ancora nel XVI secolo i pacifici svizzeri di oggi, che ci allietano con i loro formaggi mansueti e i loro orologi impavidi, insanguinavano l’Europa come soldati di fortuna. Ancora all’apogeo del Rinascimento, dodicimila lanzichenecchi al soldo degli eserciti imperiali saccheggiarono e devastarono Roma, passando a fil di spada ottomila dei suoi abitanti.
    Non pretendo di incarnare le illusioni di Tonio Kröger, i cui sogni di unità fra un Nord casto e un Sud appassionato Thomas Mann esaltava cinquantatré anni fa in questa sala, ma credo che gli europei dallo spirito illuminato – quelli che lottano anche qui per una grande patria più umana e più giusta – potrebbero aiutarci meglio se riconsiderassero a fondo il loro modo di vederci. La solidarietà con i nostri sogni non ci farà sentire meno soli finché non si concretizzerà in atti di sostegno legittimo ai popoli che coltivano l’illusione di avere una vita propria nella ripartizione del mondo.
    L’America Latina non vuole essere una pedina senza libero arbitrio, e non c’è ragione perché lo sia. E non ha nulla di chimerico il fatto che i suoi propositi d’indipendenza e originalità diventino un’aspirazione dell’Occidente. Ciò nonostante, i progressi della navigazione che hanno tanto ridotto le distanze fra le nostre Americhe e l’Europa sembrano invece averne aumentato la distanza culturale. Perché l’originalità che ci viene riconosciuta senza riserve nella letteratura ci viene negata con ogni tipo di sospetti nei nostri difficilissimi tentativi di cambiamento sociale? Perché pensare che la giustizia sociale che gli europei d’avanguardia tentano di imporre nei proprio paesi non possa essere anche un obiettivo latinoamericano con metodi diversi in condizioni differenti? No: la violenza e il dolore smisurati della nostra storia sono il risultato di ingiustizie scolari e amarezze inenarrabili, e non una congiura ordita a tremila leghe da casa nostra.
    Tuttavia, molti dirigenti e pensatori europei lo hanno creduto, con l’infantilismo dei nonni che hanno dimenticato le proficue follie della loro giovinezza, come se non fosse possibile altro destino se non quello di vivere alla mercé dei due grandi padroni del mondo. È questa, amici, la dimensione della nostra solitudine. E tuttavia, di fronte all’oppressione, al saccheggio e all’abbandono, la nostra risposta è la vita. Né i diluvi né le pestilenze, né le carestie né i cataclismi, e nemmeno le guerre eterne attraverso i secoli dei secoli sono riusciti a ridurre il tenace vantaggio della vita sulla morte.
    Un vantaggio che aumenta e accelera: ogni anno ci sono settantaquattro milioni di nascite in più rispetto alle morti, una quantità di nuovi esseri viventi in grado di accrescere di sette volte ogni anno la popolazione di New York. La maggior parte di loro nasce nei paesi con meno risorse, compresi, naturalmente, quelli dell’America Latina. I paesi più prosperi, invece, sono riusciti ad accumulare abbastanza potere di distruzione da annientare cento volte non solo tutti gli esseri umani che esistono oggi, ma la totalità degli esseri viventi che sono passati per questo sfortunato pianeta.
    In un giorno come quello di oggi il mio maestro William Faulkner disse in questa sala: «Mi rifiuto di ammettere la fine dell’uomo». Non mi sentirei degno di occupare questo posto che fu suo se non fossi pienamente consapevole che, per la prima volta dall’inizio dell’umanità, il colossale disastro che egli si rifiutava di ammettere trentadue anni fa è ora soltanto una semplice possibilità scientifica.
    Di fronte a questa sconvolgente realtà che nel corso di tutto il tempo umano è dovuta sembrare un’utopia, noi inventori di racconti, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova e impetuosa utopia della vita, in cui nessuno possa decidere per gli altri perfino sul modo di morire, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cent’anni di solitudine abbiano, finalmente e per sempre, una seconda opportunità sulla Terra.

  2. Leggere Gabriele Garcia Marquez è entrare nei paesi dei sogni in piena luce.
    Parlare la lingua dell’erotismo dei tutti i tempi.
    Conoscere il nome segreto della vita.

    Con la lettura di Gabriele Garcia Marquez ho capito il senso del racconto dentro la vita.
    Il mio preferito: Les funérailles de la grande Mémé.

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