Il marmo di César Aira
di Francesca Matteoni
Pietra splendente è il marmo, lavorato a lastre che trattengono l’esistenza trascorsa dentro una lapide cimiteriale. Certezza, chiarore, fissità: sono tutte caratteristiche facilmente attribuibili alla sostanza. Eppure ne Il marmo, romanzo dell’argentino César Aira, queste si sgretolano in globuli di poco valore, dati ai clienti nei supermercati cinesi per arrotondare il resto in mancanza di spiccioli. Si sgretolano, ancora prima, nell’incidente che dà inizio al racconto: attraverso un’immagine la solidità del marmo si cambia nella fluidità di un’epifania, che risveglia il protagonista in un presente dove ignorava di trovarsi, e a cui è giunto schivando (o utilizzando) le schegge di molte possibili storie.
“Cerco di spremere altri dati dall’unica visione o dall’unico momento che mi è rimasto impresso. (Da un po’ la mia penna ha ricominciato a posarsi sul foglio. Ho rinunciato all’attesa passiva.) Cerco il filo che mi porti al ricordo. Un solo dato, minimo, basterebbe … Ma l’unico dato che riesco a tirar fuori dal cilindro non potrebbe essere più intrigante: nel momento in cui mi abbassavo i calzoni ero seduto su un blocco di marmo”.
Come riporta Giuseppe Genna nella sua introduzione, Aira è uno scrittore di romanzi brevi, capace di finirne e pubblicarne diversi l’anno, seguendo un metodo: scrive ogni giorno almeno una pagina, seduto in un caffè, affidandosi all’improvvisazione e soprattutto andando sempre avanti, in una fuga che non permetta al racconto di voltarsi indietro. Proprio come nella vita, anche gli errori, i conti che non tornano, il superfluo, il nostro smemorarsi o attaccarsi perfino in modo ossessivo a dettagli irrilevanti, costituiscono materia narrabile, compongono l’immaginazione. Questa fuga è un incessante e progressivo ribaltamento di prospettiva che permette di immaginare l’ordinario quale sostanza nuova e bizzarra, lo turba, smascherandone il fulcro ignoto.
A dar l’avvio alla vicenda sono una serie di oggetti insignificanti come una molletta dorata, una macchina fotografica grande un centimetro, un cucchiaino-lente, una tavoletta delle proteine, che al protagonista vengono dati, insieme ai globuli di marmo, dal commesso cinese. Ognuno di questi oggetti tuttavia si rivela risolutivo nel succedersi degli eventi. Uscito dal supermercato infatti l’io narrante incontra la sua guida agli inferi o la sua nemesi: un ragazzino cinese dall’aspetto trasandato e lo spagnolo approssimativo, infarcito degli accenti del suo proprio idioma. Il mondo noto viene a questo punto sovvertito e così i generi letterari, che appaiono e si disinnescano nel viaggio rocambolesco dei due: inusuale romanzo d’avventura, tutto svolto all’interno di mura innocue, non memorabili, della città; storia che vira al fantascientifico in un lasso velocissimo di tempo per mostrarci che gli alieni sono uguali ai cinesi – agli altri, che altri non sono, umani e mortali come noi, che ci invadono, controllano un numero crescente di attività commerciali, instancabili e indistinguibili all’occhio da conquistatore in pensione dell’occidente. Infine, macchina del ricordo dove lo sforzo del vagare a ritroso e la propulsione all’accumulo di frammenti narrativi si fondono felicemente, catapultando lettore e attori in un sogno trafelato tra i fatti e le immagini.
“Ma sono stati davvero i fatti? O tutto continuava a succedere sul piano delle mie supposizioni? Il pensiero si basa sempre sui fatti, li rende ‘fatti significativi’. E nel corso della mia avventura, che somigliava tanto a un sogno, ho scoperto che la carica di significato dei fatti si moltiplica in modo portentoso quando si tratta di fatti strani, imprevisti, per esempio quando come in questo caso, vi prendono parte degli extraterrestri”.
Assurdità e pregiudizi formano quindi il tessuto marmoreo di questo reale pronto ad esplodere per rivelare il suo premio o la sua mancanza ultima, ciò per cui davvero, pur senza saperlo, si affannano il protagonista, il ragazzo cinese, gli alieni – una profonda nostalgia per qualcosa che è stato o che può divenire, sebbene i mondi conoscibili non facciano altro che rispecchiarsi identici, sebbene tutto l’esperibile sia solo un ripetersi del sé, la sensazione di esserci già stati. La variabile sta nello scivolamento delle cose dentro una mente o una memoria, nel moto nostalgico verso l’origine o la prima ragione – prima del fatto concreto, dell’universo codificato, quando la scrittura e le sue storie non sono ancora nulla, si manipolano in tasca come amuleti, si affrancano dalle verità e dai fini nella pura, splendente invenzione.
César Aira, Il marmo. Prefazione di Giuseppe Genna, Traduzione di Raul Schenardi (Edizioni Sur, 2014)