cinéDIMANCHE #14 JOHN CASSAVETES “Una moglie” [1974]
Intervista di Yves Bourde (Le Monde) a John Cassavetes pubblicata in Hommage à Cassavetes a cura di Orly Films
traduzione di Francesco Forlani
#
A Woman Under the Influence. Una donna “sotto influenza”… di che influenza si tratta?
Di una forza … L’influenza del suo entourage, della società, del marito, della sua famiglia, della maternità. Una donna lacerata tra diversi poteri, tra diversi ruoli.
Dopo Husbands, Mariti, Minnie e Moskowitz, l’amante, ecco la donna. Quale donna?
Ho scritto questa sceneggiatura per mia moglie, Gena Rowlands, splendida attrice però non si tratta di un’autobiografia. Questo lavoro nasce forse dalla disperazione, dall’interrogarsi sul senso della nostra vita? Ho messo da parte l’allegria, l’umorismo, il ridicolo, e mi sono immerso in qualcosa di serio, in questo desiderio di dire, dire qualcosa per Gena, per la mia stessa famiglia. Gli uomini non sono abbastanza sensibili, riconoscono le difficoltà delle donne, non le conoscono. La scrittura del soggetto è nata in solitudine, anche qualcosa di più della solitudine: in uno stato d’innamoramento. Man mano che procedevo nell’elaborazione e poi durante le riprese, ho preso coscienza di problemi che mi erano sconosciuti, per non dire estranei. Infine, quando ho visto il film terminato, sono rimasto scioccato dalla realtà.
Film-psicodramma, Psicoterapia ?
No. È la vita che è uno psicodramma. Il film tratta di ciò che ci è peculiare, le ossessioni generali tra uomini e donne. C’è un problema legato all’amore. Una donna come Mabel, il personaggio protagonista, si è forse detta prima del suo matrimonio: “Io non voglio sposare quest’uomo,” eppure lo ha fatto. Questa coppia è diversa dalle altre in quanto è così coinvolta da non potere divorziare. La domanda allora è: “L’amore è possibile, in particolari circostanze, può resistere quando la famiglia si divide? »
Si dividerà?
Non lo credo. Il legame è la conoscenza di tale legame. È fuori di discussione. L’uomo deve prima escludere la sua famiglia per cominciare a spezzare questa influenza e lasciare alla moglie il tempo di esprimersi, di essere degna, di essere sé stessa. Alla domanda “Mi ami? ” lui non può rispondere, si rifiuta di mettere un’etichetta a un sentimento che va ben oltre l’interrogativo. Tutto rimane aperto. Il nodo non è nella passione della sessualità, l’uomo e la donna se ne accomodano. È che lui ama ciò che la rende diversa, l’anima originale, ma crede di essere l’unico a capirla. Ecco allora che non riesce a superare il proprio disagio nelle situazioni in cui si ritrovano di fronte a molte persone. Peter Falk pensava del marito, del suo personaggio, che l’amore fosse un ostacolo alla sua comprensione di lei.
Come ha diretto i suoi interpreti?
In primo luogo, per me non si tratta di attori, ma di persone, esseri viventi. I registi sono piccoli dittatori e la stampa dà loro troppa importanza, a me compreso. È l’intensità delle emozioni che conta. I ruoli sono interpretati da persone che amo, mia moglie, sua madre, mia madre, altri Cassavetes, amici, ed è impossibile controllare le emozioni di coloro che amate, però più li conoscete, più si può far passare quello che sentono.
Io non li dirigo in ogni dettaglio e non si correggono mentre recitano. Non cercano di dare al pubblico un‘immagine simpatica di sé stessi. La cosa rara è che si rivelano come persone. Questo fa parte della mia mentalità. Dobbiamo allenare noi stessi a rimanere sensibili, sono le emozioni a farci vivere. Amo questo film perché non vi è alcun punto di vista. Non ce ne possono essere. La storia e i personaggi sono molto reali per me. Se pur la visione di queste fratture è compiacente, questa cosa esiste: alla prima occasione, ci allontaniamo di corsa dall’amore.
Quanta parte lascia all’improvvisazione durante le riprese?
Praticamente nessuna. Il film si compone di diversi scritti sparsi e messi insieme e tutti i dialoghi sono stati rispettati alla lettera. In compenso, la libertà che hanno gli interpreti di esprimersi fisicamente ripugna a tanti. Pensano che il loro comportamento vada troppo lontano. Mi ricordo di un nuovo assistente operatore sul set di ripresa, talmente sorpreso dalla violenza di una scena che gli è caduta di mano la telecamera. In effetti, quando si lavora su un terreno così fragile e pericoloso, l’intensità, l’atmosfera così tesa possono impressionare. In realtà la cosa importante è la paura che hanno le persone di esprimersi e voglio che nessuno si senta in colpa per avere qualcosa da comunicare. È la libertà di esprimere la propria profondità ad essere rivoluzionaria.
Comments are closed.
Capolavoro che va molto oltre le intenzioni dell`autore. Nell`intervista rimane dietro lo sfondo il tema dell`attrazione che vince il pregiudizio. Non dimentichiamoci che erano gli anni in cui si finiva negli istituti tratteggiati in qualcuno volo` sul nido del cuculo per le peculiarita`mascherate da sintomi di una pseudo-nevrosi che la protagonista si portava dietro da prima del matrimonio che in questo caso funge da scudo, almeno fino a un certo punto, contro un mondo che da sempre manifesta ostilita` verso qualsiasi deviazione da prassi consolidate tirando per la giacca il fantasma della normalita`
D. non so dirti se vada oltre o corrisponda pienamente all’universo compositivo di Cassavetes, e sopratutto alla sua visione del mondo. Il parallelo con qualcuno volo` sul nido del cuculo, del ’75 mi sembra giusto anche se a “una moglie” manca la dimensione “La Nave dei folli” (Hieronymus Bosch)con Jack Nicholson come capitano
Ragazzi che dire! Cassavetes è uno dei più grandi, non so perché, non so come fa, c’è qualcosa di totalmente assomigliante all’incompiutezza disordinata della vita, solo che la vita, come noi la elaboriamo, mentalmente, nell’immagine che ce ne facciamo, assomiglia meno alla nostra vita, che la vita che si vede in Cassavetes, non so se mi sono spiegato, ma non importa…
E io ringrazio Francesco per avermi fatto conoscere un film che forse non avrei mai visto. Poi, come dice Andrea “solo che la vita, come noi la elaboriamo, mentalmente, nell’immagine che ce ne facciamo, assomiglia meno alla nostra vita, che la vita che si vede in Cassavetes” – e forse è proprio questo che spinge a ri-raccontarla, e noi a essere presi da quella realtà aumentata al contrario (così reale perché così incompiuta)
Anche io ringrazio per aver reso, qui, pubblico questo film.
Essendo uno sciame d’emozioni vitali oppure letali, mi sono ritrovata in Mabel che fa la croce con le dita (per allontanare il demone della – cura – della iniezione letale di quel togliere la sua unione con un Sé collettivo, o di una più semplice necessità di vita, diritto alla vita con la “mia sensibilità, il mio amore, il mio voler rendere contento lo sposo o almeno me stessa) per allontanare il demone del rifiuto di comprensione per quello stato in cui lei, fantastica Gena interpreta ma direi di più si identifica anzi si immedesima nella donna ma anche nell’uomo con modi espressivi penso differenti, non lo so sono una donna e una che ha vissuto quella specifica coercizione manicomiale quando cedono le barriere dell’orgoglio dell’amor proprio, nella relazione – ma rivendica la necessità e libertà dell’esistere anche – in quello “stato”.
Uno “stato” fondamentale, una pazzia d’amore. Mabel, e noi altre, impazzisce quando ama e sente il suo amore negato. La coppia è un rimbalzo della storia che come in un tavolo da biliardo – d è raccontata con dovizia di particolari. Ecco questo mi è nato alle 06:00 del mattino di oggi 10 febbraio 2015, ma so che continuerò a far vivere quella Mabel, e quei personaggi ma interpreti di una storia che è non solo mia, ma di moltissime altre donne – coppie – nonne -bambini. Sono consapevole di non sapermi spiegare bene.
Grazie se mi avete seguita fino a qui.
invece ti sei spiegata benissimo e non solo; hai colto secondo me il nucleo centrale di questa narrazione che è nel modo e nel senso di ogni relazione, o storia d’amore come del resto ci indica nell’intervista lo stesso regista. effeffe
si; ho purtroppo vissuto “lo stato” di Mabel e degli altri interpreti. Tutto nel nucleo del film. Poi diventa addirittura secondario se il marito è un padre, se i figli sono attimi di libertà se l’interprete si è data del filo da torcere nell’immedesimazione. Anche perché le sinapsi bruciano rosso fuoco, e il corpo è padrone ma non della mente. E neppure del cervello. La vita ha un punto di non ritorno
E mi rendo conto che il mondo è pieno di persone in questo “stato” ed eppure peggio(semza ombra di giudizio) e se avessero avuto l’opportunità di visionare questo bellissimo film proverebbero lo stesso stato generale. Dunque è evidente che gli attori, con una sceneggiatura obbligata, sono liberi nell’interpretazione e come dice il regista, si prova davvero paura, terrore, rifugio nel mito di una storia, sempre personale e insieme collettiva. Ancora devo vederne la fine, che guardo a tappe.
http://elcomunicadodelcanguro.blogspot.it/2009/11/john-y-gena.html?m=1