Da Versi Nuovi (2004). Prima parte.
di Biagio Cepollaro
L’HO VISTA ANCORA (1998)
l’ho vista ancora distesa la linea bella e dritta
del mare e lo stupore pensando al vivo e non
ostante confusione immessa dall’odio dall’olio nostro
bisogna solo dimenticare staccare d’un colpo
la spina
vent’anni a mettere mattoni a credere edificare fosse aggiungere
sommità vent’anni dentro
l’idea
dell’alto e del basso a misurare il fatto col da fare
cosa faccio con linea dritta che sfodera onde apre
e chiude
pagine
apre
e chiude
questo denso di tenere molecole che s’affinano affinano fino ad essere più
leggere
dell’aria
così immagino un abbraccio e dico bisogna stabilizzare questa intensità
di ioni farne una splendida abitudine come la calda quiete del nucleo
della terra tutto fuoco e metallo tutta lentezza di rotazione perché sopra
ci sia erba ed acqua e noi a chiederci ancora se quello che c’è sopra la terra
sia cosa buona
vent’anni a mettere mattoni a credere edificare fosse aggiungere
non diminuire
vent’anni perso nell’attuale a simulare storia l’intreccio di miserie
senza presente che chiamano attività intellettuale li vedi anche tu
con in faccia
scritto il terrore di sparire e l’illusion di farcela a scampare per sola
malignità
e non dovrebbe non dovrebbe esserci ancora tanta rabbia
che ogni rottura fa lo sgambetto al flusso
di comprensione cosa ottunde cosa occlude in troppe
sere è come tornare a zero
il gatto che sul ramo avanti
e indietro non si fida
a saltare il millepiedi che ci pensa al prima
e al dopo
e non fa più un passo
la volontà non c’entra e non cresce
alla fine
sarà come un riflesso distratto anche per noi
il bene
e quello che invece si chiedeva da loro – da noi – era
aver attraversato
una volta per tutte deciso di scendere come l’acqua fa
per il pendio
verso il basso
non di star a galla comunque
chi s’aggrappa alla carcassa dell’ala
chi alla tavola che una volta fu nel salone delle feste piace così
tanto l’idea del naufragio
che parla di loro – di noi – in un giorno qualsiasi fermi al semaforo
tornando dal lavoro la chiglia immensa e ribaltata le luci all’incontrario
malconci poggiati su quello che una volta era il soffitto
ma poi s’ingrana e il mare torna a stare sotto
come un affare
d’agenzia
di viaggio
e si tratta di diminuire
farsi sorgente lasciar perdere andare
per tornare e smuovere acqua
tutta quell’acqua che non cresce e non si perde e vuole
abbattersi farsi muro e schiuma per poi calma
mente farsi indietro infinitamente ritirarsi
***
IL PICCOLO E IL GRANDE (1999)
(tra Carlo, il padre e Carlo, il figlio)
il piccolo chiede perché c’è buio e perché
luce
il grande risponde che la terra tutti noi giriamo
e lentamente
girando
viene buio e luce e poi luce e buio
che non scompare che ogni cosa luminosa ritorna
e varia
più cupa più pioggia e anche
allarme
dell’auto taglia notte e tuono
chiede abbraccio
poi infermiere strattonarono il corpo in una deposizione
senza pietà
mento penzolante
sul petto
pigiama
freschissimo
in fretta senza riguardo che proprio a loro
toccava il turno
dell’ora più calda di giugno in fretta a sistemare
il morto
a raccogliere lenzuola e fasce
da bruciare
altrove
non bisognerebbe chiedere alle cose
di parlare tra loro: sono lì
a graffiare per solo attimo il cielo e l’insieme
non dice più
delle linee della mano: foglia erba tronco tromba
d’aria
prima gli disse che poteva chiudere
in pace
il conto
che buono era stato
il passaggio
visto da fuori c’era stato di tutto
per una vita
media degli anni
sessanta
dall’ebete
giovinezza alle bombe
il paese fatto colonia comprato prima con pane
di grano e poi in sviluppo e progressione
con frigorifero ascensore auto
e televisione
la storia è cornice troppo grande
e sfilacciata l’omino neanche si vede
nel paesaggio e poi la cornice non è
che un altro quadro l’unico che c’è
fermo
sulla parete
il resto tutto il resto è apparso e sparso
però
che vuol dire visto
da fuori e media vita
non c’è fuori che tiene ma qualcosa uno
deve pur dire
nell’ultimo commiato: ti sei fatto già piccolo sei già
labile
ricordo
te ne vai
al tuo minimo termine
che un altro
anno
non avrebbe cambiato ma lui diversa
se l’era immaginata
non così oppressa da minuzie la credeva
solenne e per sola volta
immune
non bisognerebbe chiedere alle cose
di arredare le nostre attese e anzi
non bisognerebbe attendersi niente
dalle cose (calcolando le orbite
delle comete quando vaganti
montagne e città e le infinite
interazioni le magnetiche
passioni della terra)
se anche ora volesse leggergliela lei non avrebbe tempo
e riposo non avrebbe aria
libera
è così difficile pane guadagnarsi quotidiano o è un’altra
l’ansia
del tutto pieno
prende contegno il panico una misura e forse
sarà davvero sbucata su di una via
più sua
lui neanche ci prova
ora che tra i due interpone
un grande
vuoto
non bisognerebbe chiedere alle cose
di restare
né puntare ogni porta
che si apre
non bisognerebbe stare dove nulla
è stato
non è monumento: ecco è questa
la vecchia
abitudine della pietra
ad insistere
con pietra e carta, appunto,
si tratta solo di un momento
intanto
si sente uno che è scampato
col suo panino in sorte buona o saggia
ma poi non è importante che sappia
(non arriva mai
diretta
la vicinanza)
solo che è strano: è come essere ai lati
opposti
della terra
ognuno con ciò che chiama
buio
ognuno con ciò che chiama
luce.
Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004
[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri.
Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C.]