150 anni di Alice: Alice disorientata
150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI. (NDF)
di Licia Ambu
Un tale mi disse che risvegliandosi la mattina presto è meraviglioso trovare, almeno in complesso, tutte le cose allo stesso posto dove erano la sera […] il momento del risveglio è il più rischioso della giornata; una volta superato senza essere trascinati via dal proprio posto, si può stare tranquilli per tutto il giorno[1].
Alice è un frattale.
Frattale è quella figura geometrica dove un elemento ripete se stesso su scale diverse e sempre più piccole, all’infinito. Alice è un frattale del disorientamento. Alice è un frattale del sovvertimento. Una bambina senza sottrazione di possibilità,
fiduciosa, pronta ad accettare le cose più folli e impossibili con tutta quella fiducia totale che solo i sognatori conoscono; e infine, curiosa, follemente curiosa, e con l’avido godimento della Vita che viene solo nelle ore felici dell’infanzia, quando tutto è nuovo e bello.[2]
e composta da una testa, un corpo, linguaggio, nozioni e molta immaginazione. Tutti elementi che concorrono a formarne l’identità e che, cadendo nel buco, attraversano metamorfosi e mutazioni tali da fargliela perdere.
Alice che cade nel buco sognando: è proprio andare via da un’altra parte con la testa restando qui col corpo. Una fuga da fermi. Alice resta sul prato […] Quello che ti fa andare da un’altra parte con la testa è qualcosa che senti, sempre molto fisico. […] dov’è che sei tu? Nella testa o nel corpo? […] Come se il corpo richiamasse a sé la testa passando in rassegna il suo sapere per rimetterla a posto, per ritrovare un’identità: chi sono? Che ora è? Dove sono? Alice non sa più chi è. Dove ha lasciato il suo corpo e dove va con la testa?[3]
Il buco è incipit di un altrove costellato di buffe creature, un luogo basato sull’armonia universale del non senso e zeppo di roseti da ridipingere dietro cui si ordinano continuamente decapitazioni. L’immaginazione di Alice apre le danze, partendo senza riserve al seguito di un coniglio sbucato dal nulla. La sperimentazione del disorientamento ne investe tutte le parti: il suo corpo cessa di essere statico e inizia a mutare, ad allontanarsi da lei, a comprimerla, a renderla microscopica o gigante. Improvvisamente il collo si allunga talmente da farla scambiare per un serpente, e i piedi sono così lontani da farle prendere in considerazione l’idea di iniziare con loro una corrispondenza scritta. Corpo che si plasma all’evenienza esterna, ma con una regolazione senza possibili previsioni e attraverso curiosi espedienti. Una domanda di metamorfosi che serve ad appagare il desiderio ambientale: una minuscola serratura, una casa, una chiave da raggiungere. Di fronte a questo disorientamento fisico bisogna correre ai ripari, dunque la testa, come unico mezzo di salvezza, inizia a mandare a memoria le filastrocche per capire bene se le cose sono in regola. Richiamare il sapere di proprietà personale per restare ancorati, per ridefinire una realtà, per avere la certezza di non essersi persi. Si muove la testa se il corpo è fermo, si ferma la testa quasi se il corpo si muove. Ma nemmeno i versi stanno al loro posto, c’è un coniglio bianco vestito di tutto punto e Piccol’ape tutta scombinata. Le cose che Alice sapeva, e sapeva di sapere, non sono più nel posto in cui le aveva lasciate e questo può solo portare alla logica conclusione che nemmeno lei stessa si trovi più lì.
Sta a vedere che alla fin della suonata sono proprio Mabel, e mi toccherà far trasloco in quella sua baracchetta sciatta sciatta e avrò si e no uno straccio di giocattolo e, oh, quante cose che dovrò imparare daccapo! No, qui bisogna prendere una decisione: se sono Mabel non mi sposterò di un millimetro! Inutile che ficchino dentro la testa per convincermi ‘Vieni su, tesoro! Mi limiterò a guardarli dal basso in alto e dirò: ‘Ma allora chi sono? Prima me lo dite e poi, se mi andrà di essere quella persona, ritorno su, altrimenti sto qui finché non sono diventata qualcun altro… ma, oh cielo![4]
La piccola vittoriana si ritrova ad abitare un corpo senza possibile controllo, con una testa apparentemente inutile alla causa, e viceversa. Lo stesso smarrimento si gioca anche sul piano del linguaggio, stordito anche lui rispetto ai canoni. Nelle parole di questa storia, nell’impianto stesso della lingua, il suono prevale sul senso così che il significante cambia di forma, di corpo: la butterfly ha le ali fatte di burro e il racconto del topo si confonde con una coda molto lunga,
Mine is a long and a sad tale!
It is a long Tail, certainly
La dilatazione del suono è un ventaglio di possibilità che disorienta il senso. La certezza del racconto, e del sapersi narrare, come risoluzione vacilla di fronte all’incertezza data dalla perdita di senso. Il linguaggio non è più collante ma diventa lui stesso una possibilità, una realtà alternativa. I segni che sono la convenzione vigente si bagnano, anzi sono immersi, nel suono e ne consegue un necessario negoziato costante per riportarli a casa, per ricalibrare le conoscenze al grado zero della propria verità.
Le parole che significavano una cosa ora ne abitano un’altra, riempite di una pertinenza diversa. Il linguaggio, forma di controllo e determinazione della realtà, strumento di definizione del sé per assonanza o differenza, è completamente mutato nella sostanza e dunque la percezione del reale tutto cambia. La struttura crolla, le parole non sono più loro, hanno altre identità. E se le parole che avevo per raccontarmi non sono più quelle, allora come mi racconto adesso? Mi racconto un’altra? Mi racconto Mabel o matta o serpente? Alice è proprio come una parola che deve rispondere a innumerevoli significati. Lei stessa diventa un suono pieno di possibilità di essere. In questo luogo dell’immaginazione non ci sono le stesse prove del mondo reale, l’immaginazione partorisce all’occorrenza le evidenze che le servono a darsi plausibilità e così la libertà può manifestare se stessa all’infinito, alimentando al contempo un proprio equilibrio.
Mi dici per piacere che strada devo prendere?
Dipende più che altro da dove vuoi andare, disse il Gatto
Non mi interessa tanto dove…, disse Alice
Allora una strada vale l’altra, disse il Gatto
…basta che arrivi da qualche parte, soggiunse Alice a mo’ di chiarimento.
Oh, questo è garantito al limone, disse il Gatto, basta che metti un piede dopo l’altro e ti fermi in tempo.
La testa ci prova. Corre sul binario della convenzione, della regola grammaticale delle rime per contenere un corpo che segue suoni che ne mutano la forma, sovvertono la sostanza e plasmano. E mentre il corpo dorme, invece, la testa gioca liberamente a credere che sia possibile, al facciamo finta che, Alice ci sta alle carte che non sono solo carte, al Cappellaio, ai funghi, alla quadriglia, al coniglio. La percezione del qui e ora rende l’esperienza infinita anche per ciò che dura un solo attimo, non c’è prospettiva evolutiva, ma una sorta di ripetizione del tè delle cinque e perciò il luogo in cui sei esiste nel momento in cui lo concepisci possibile, lo inventi, lo senti, lo leggi,
Perché io ho la dimensione di ciò che vedo
E non la dimensione della mia altezza.[5]
Ma è anche una signorina centrata, Alice. Il suo disorientamento pare conoscere bene la differenza tra la realtà e l’immaginazione qualche volta, sa quando accettare che un mazzo di carte può sì ridipingere delle rose e giocare a croquet, senza scordare del tutto che resta sempre un mazzo di carte quando si perde la pazienza. Il gioco è bello ma poi deve anche finire a un dato momento.
Alice non si può far altro che seguirla, non si può fissare mai perché è mutazione, movimento costante. Il disorientamento è chiave, bottiglietta, risveglio, unico modo per cadere come si deve. Dietro un coniglio che è una serendipità continua, si snoda il viaggio di un’eroina che esiste per noi come una carta, o come una bimba, o come una storia in cui ci piace cercarci.
Il buco di Alice non è mai dove pensi che sia. Un buco stabile, che sai già dov’è, è solo spettacolo, finzione teatrale o turistica. Le strategie di controllo ti propongono buchi stabili che sono li per portarti lontano. Ma la questione sta nell’avvenimento che ti passa vicino; non ti accorgi neanche che sta per succedere, poi succede, allora lo vivi o niente. Inutile stare a fare la critica dell’avvenimento; e non puoi neanche tenerlo come modello una volta che l’hai vissuto. Per questo il buco di Alice non è un modello, è soltanto un movimento di caduta. Alice che cade nel buco sognando: è proprio andare via da un’altra parte con la testa restando qui col corpo. Una fuga da fermi.[6]
Alors, qu’est-ce que t’as fait?
J’ai vieilli[7]
[1] Franz Kafka, Il processo, Mondadori, 1980.
[2] Lewis Carroll, Alice on the stage, The Theatre, Aprile 1887.
[3] Gianni Celati (a cura di), Alice Disambientata, L’erba voglio, 1978.
[4] Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Feltrinelli, 2005, testo originale a fronte, trad. it di Aldo Busi.
[5] Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, 2001.
[6] Gianni Celati (a cura di), Alice Disambientata, edizioni L’erba voglio, 1978.
[7] Raymond Queneau, Zazie dans le métro, Gallimard, 1959.