La Non-Patagonia di Mariano Bàino
di Daniele Ventre
La dimensione dell’estraneità, dell’uomo ἄπολις, clericus vagans e particella errante ed errata del corpo sociale, è una figura ormai tradizionale dello spazio letterario d’occidente. Accade tuttavia di imbattersi in opere che interpretano questa antica dimensione in modo peculiare, non scontato: particelle ancora più rare nella materia oscura della scrittura senza patria. Nel secolo scorso ne fu esempio, nella Mitteleuropa, un Arno Schmidt, in Italia, in un ambito di ricezione più ristretto, un Emilio Villa; in questo primo scorcio del secolo folle è fra noi più di tanti Mariano Bàino, con la sua provocatoria parola di appartato e sorridente decostruttore, a incarnare di nuovo con serietà, senza pose usurate da melodramma intellettuale, e a dare testimonianza, in modo personalissimo, di questa forma di poesia estrema.
Nel panorama assai frastagliato, da poligrafo, autore di prose e di versi, fra lingua regionale e italiano, dell’opera di Mariano Bàino, assume un ruolo peculiare l’ultimo libro, in (nessuna) patagonia, ed. ad est dell’equatore (2014). Si tratta di un testo che si libra al di fuori degli usuali confini che attraversano il vasto continente della prosa, distinguendo la narrativa dalla saggistica e il romanzo introspettivo dal racconto di viaggio e di esplorazione. In tal senso quest’opera di Bàino, con la sua non collocabilità, contiene già nelle sue premesse e nelle sue condizioni al contorno il suo centramento tematico paradosso in un non-luogo: un non-luogo che non è più utopia, essendo l’utopia ormai fuori contesto, “marxismo ormonale” senza giustificazioni storiche e ideologiche, per usare un’espressione dell’autore.
L’incipit del viaggio paradosso di Bàino in Patagonia è quanto di meno avventuroso si possa immaginare, dato che il romanzo si apre con una curiosa associazione di idee, la cui ouverture è non altro che la descrizione di una sedentarissima Corb Chaise lecorbusieriana foderata in pelle -forse pelle di vacca argentina, patagonica-, con la sua “vocazione di sedia a dondolo” e le sue “linee d’aeroplano”: un mezzo di trasporto per un viaggio mentale, la cislonga di pelle di bovino della Patagonia, forse inabissatosi in un ghiacciaio e ivi cristallizzatosi in fossile immaginativo male interpretato, come fu male interpretato il falso brontosauro (in realtà milodonte) di Bruce Chatwin, l’autore de Le vie dei canti e di In Patagonia, libro anch’esso anomalo, che per l’opera di Bàino assume il ruolo di ominoso metatesto.
Sin dal suo aire fra coordinate non locali e interpretazioni slittate e distorte, questo viaggio si connota soprattutto come un esilio: “L’esule volontario, anche quando in esilio virtuale (momentaneamente virtuale), ha pur sempre la patria in cuore… solo che neanche puoi tenertelo ad onore un simile esilio”, dallo Stato di dittatura mediatica, o di post-democrazia o di democratura: l’autore delinea da subito una fuga “via dall’unico paese che ha tre destre: liberale; clericofascista e populista; di sinistra”. L'”estraneità idiopatica” alla patria si fa così sin dall’inizio un connotato antropologico strutturale, tanto che l’esilio si configura nell’immediato, per lo scrittore, una dimensione esistenziale ineliminabile. L’Ich Erzäler di Bàino si costituisce così come una sorta di anarca poetico, geografico e culturale; la connotazione della sua opera è un non luogo nella tassonomia letteraria; il suo punto di partenza è un non luogo nell’area delle condizioni sociali e politiche possibili, stante che l’abitatore dello spazio politico di una democratura non è formalmente un suddito, ma non è nemmeno libero, e dunque è reso inopinatamente responsabile di scelte che non gli appartengono e che non può operativamente attuare (e perciò si porta addosso il carico delle colpe essendo di fatto innocente); il suo viaggio virtuale è un esilio, la cui destinazione, la Patagonia, è un altro non luogo, uno spazio geografico alieno, al limite dell’ecumene -e viene fatto di pensare a qualcosa di simile all’immagine del Saskatchewan, ipotetica destinazione e punto di fuga per tedeschi non asserviti, quale appare evocato da Arno Schmidt nel suo Aus den Leben eines Fauns. In tal senso questa (nessuna) Patagonia di Bàino parrebbe a tutta prima configurarsi come l’esemplare estremo della tipologia del non luogo-rifugio non utopico che l’uomo ipermoderno, ideologicamente decurtato, si riduce a concepire.
Cassati tutti gli altri viaggi, tramiti ordinari di estraniamento di massa verso superluoghi consacrati dalle infinite vie e motivazioni del turismo, e dunque sempre monetizzabili, riducibili a ragioni di controllo, dominio e profitto, la Patagonia diviene al principio l’unico non riducibile orizzonte di fuga. Si tratta, per l’autore, di chiudere (anzi di “kiudere”) con il proprio luogo di nascita e di non appartenenza: “Kiudo, come scrivono alcuni su Facebook quando non vogliono più chattare… Con questa itaglia, kiudo. “Io noto in Italia una sorta di ebetudine”, scriveva Croce a Laterza durante il fascismo. Ebete itaglia. La brutta addormentata nel bosco… Kiudo. Bisogno di spezzare l’aria. Sono un dispatriato…” L’evidente citazione di Emilio Villa, continuamente richiamato col ricorso a invenzioni linguistiche che a Villa sarebbero congeniali e alluso in quel deprecativo nome geografico deforme, itaglia (chiosato da Bàino in “l’umana compagnia italica o italiota. Stirpe che si fa guidare da imbecilli che hanno fama di essere machiavellici”), fornisce un’ulteriore chiave di lettura alle coordinate di partenza del viaggio e del libro: o meglio, alle sue coordinate di “spartenza”, di allontanamento, separazione e separatezza, ma anche di falsa partenza, partenza sbagliata, in cui l’uomo in esilio di Bàino è gettato. E per suprema, dissacrante ironia, nella sua partenza sbagliata e nella sua separatezza, l’io narrante è accompagnato, verso sud, verso la montagna bruna di nessun purgatorio, da una orazion picciola rovesciata: “considerate la vostra scemenza/ fatti voi foste a viver come bruti/ non per seguir virtute e conoscenza”, parole di un Ulisse à rebours che rinnega ogni possibile compagno e ogni possibile ritorno: un Anti-ulisse in spartenza per un esilio-non-viaggio senza ritorno da un non luogo verso un non luogo, che fa il paio con l’Edipo indifferente, senza sfinge, anti-edipico, appartato a mangiare un gelato in mezzo ai Tebani-italioti apatici, dell’ultimo componimento villiano de Le mura di Tebe; un Anti-ulisse che nell’evoluzione dell’opera di Bàino continua, ed estremizza, la formula dell’Anti-Crusoe alla base dell’inermità e dell’inabilità che domina la dimensione antropologica de L’uomo avanzato.
Nel percorso del suo esilio, più o meno virtuale, Mariano Bàino è scortato da memorie di viaggio di ogni tipo còlte col rampino dalla tradizione storico-letteraria -con la premessa anomala di due citazioni diametralmente antitetiche: il Lévi-Strauss che sbotta “detesto i viaggi e gli esploratori”, e il Busi che scrive, dal canto suo: “Detesto i diari di bordo e la letteratura di viaggio”. In tal modo, rispetto alla materia narrata, il narratore interno si pone in un curioso distacco, delocalizzandosi anche rispetto al suo contenuto, e guardandolo in tralice, come una specie di Ariosto prosastico che non potendo, per forza di cose, più credere al mito della scoperta, in un pianeta cognitivamente collassato in un punto, ironizza su sé stesso e sul suo stesso dispatrio. All’occhio distaccato dell’autore gli snapshot di viaggio e di esplorazione delle età trascorse ritornano tuttavia ossessivi: così le memorie di Pigafetta, con il loro “visto con gli occhi” del viaggiatore, darrighiano corrispettivo del “visto con gli occhi della mente” del narratore; l’aura da finis terrae, fin del mundo, che circonda Capo Horn, con il suo bollettino di naufragi; i sogni geografici di Don Bosco sulla Patagonia; le testimonianze di padre Alberto Maria de Agostini, alias don Patagonia; le Scalate sulle Ande di Clemente Onelli. Un ruolo particolare hanno poi le memorie delle donne occidentali che si trovarono ad abitare per la prima volta la Patagonia: così è per l’altezzosa Lady Florence Dixie di Across Patagonia, per la María Brunswig de Bamberg di Allà en la Patagonia, in cui si arriva a formalizzare l’immagine dell’ostilità liminare della regione che “non è un paese per donne”; così è per Elena Greenhill, la Inglesa Bandolera uccisa a tradimento, donna a capo di una schiera di banditi di prateria eppure dedita, in contrasto con la correzione ipermachista della sua esperienza di donna sulla frontiera del nulla, ad occupazioni insospettabilmente e assurdamente casalinghe -per esempio, quella di tessitrice di panni per i suoi figli, in una sorta di inconscio ruolo di filatrice/moira archetipale
L’estraneità di questa Patagonia che è teatro di questa molteplice antropizzazione paradossale, finisce per coincidere e collassare in una sorta di elusiva familiarità (a un tratto l’io narrante-viandante si trova anche di fronte una sede del locale partito demòcrata-cristiano, quasi si trovasse in una sorta di strapaese politico all’estremo limite meridionale del mondo), così che anche all’estremo dello spazio geografico in cui il paesaggio patagone è collocato, si riconosce, inopinatamente, la zavattiniana qualsiasità che fa di ogni punto della terra un luogo come un altro, rappresentazione antropologico-topologica di un sorprendente isomorfismo, di una quotidianità sempre banale, così che la spartenza-esilio dell’autore finisce, da ultimo e di principio, per chiudersi su sé stessa, in una struttura ad anello, vanificando il dissenso che l’esilio porta con sé, eppure accentuandone, nel contempo, l’inesorabile necessità: “Sento gli avversi numi, la sorte di Scazzetta, il negativo del karma. E in nessuna Patagonia potrò ridare all’Italia l’istituzione dell’esilio. L’Italia, del resto, ha perduto forse istituzioni anche più basilari. Per carità, espatriazione perpetua. In nessuna Patagonia troverò una notte che non sia scurissima, senza luna né stelle. In nessuna Patagonia potrò dimenticare queste infelici condizioni. Grave exiglio. Tristia. Anima pellegrina. Però, disitalianizzarsi.”
E all’autore resta soltanto, per disitalianizzarsi nel profondo, la possibilità di abitare questa distanza dall’ebete padritaglia, questa non località, esprimendola in una lingua che oscilla fra la limpidezza della cronaca di viaggio, l’andamento diaristico, e le ircocerviche neoformazioni di una parola estrema, debordante, aliena.