Leggere Wendell Berry o dell’essere parte della terra che abitiamo

di Francesca Matteoni 

Ho conosciuto Wendell Berry poeta attraverso il regalo di amici. Era l’autunno del 2015 e insegnavo il corso Italian Life and Culture a un gruppo variegato di studenti californiani, di età compresa fra i diciannove e i settant’anni, accompagnati nella loro avventura italiana dai due insegnanti di fotografia e letteratura contemporanea italiana, Kate e Scott. Proprio loro, prima di salutarci nell’ultima settimana del corso, mi hanno regalato un libro che tengo molto caro, uno dei One Poem Books curati da Kate, che conteneva le sue fotografie e The Wild Geese una poesia di Berry. Questo regalo racchiudeva e sanciva quanto abbiamo vissuto insieme in meno di tre mesi ben oltre il contenuto delle lezioni: la scoperta e l’attenzione per la diversità dell’altro, la storia dei paesi che non è mai unica, una nuova e antica premura dei rapporti fra di noi e con il tempo e i luoghi di cui, consapevoli o meno siamo responsabili. Soprattutto, quando mi capita fra le mani, ripenso alla nostra gita all’Orsigna, sulle montagne pistoiesi, alla visita al caniccio per essiccare le castagne, al Molino d Giamba, il pranzo con i prodotti locali, le parole di alcuni dei più giovani guardando i monti bruniti: “Vorrei vivere qui per sempre”. Potrei dire che, senza che ci abbia mai ragionato su, un castagno per me è casa. Ma vedere luoghi familiari attraverso lo sguardo stupito di altri riempie di uno strano orgoglio, un sentimento di riconciliazione per mezzo della condivisione. Siamo qui ora, parliamo lingue differenti, ma il nostro sentimento è simile, una forma di gratitudine verso la terra su cui sostiamo, che possiamo ancora conoscere con le nostre mani o i racconti che passano dai boschi al lavoro umano e che una tenace minoranza della nostra specie tenta di preservare.

Molino di Giamba, Orsigna
Molino di Giamba, Orsigna

Nello stesso periodo la mia vita si radicava in un modo insospettato nella frazione collinare dove vivo  dall’ottobre del 2013, data del mio rientro dall’Inghilterra. Si radicava o forse si ritrovava: l’area da cui provengo è comunque questa, la mia bisnonna era nata in un borgo vicino; io sono cresciuta  poco più a valle nella casa materna; a  qualche centinaio di metri più in alto, sull’Appennino, si trova invece la casa paterna – il mio passato e il mio presente quali luoghi collegati da una strada con un nome proprio: Riola. Territorio e comunità sono pian piano diventate la mia concretezza quotidiana. Queste sono le cose minime che mi accadono:  i rapporti di vicinato non sono più una mera formalità; gli anziani del posto formano la mia altra famiglia,  le loro vicende e i prodotti dei loro orti mi entrano in casa;  fare la spesa nelle due uniche botteghe non è un lusso, ma un altro essere parte di un paese e non farlo morire. Quando c’è una festa ognuno contribuisce come può, quando qualcuno muore tutti, indipendentemente dalla fede personale, si ritrovano davanti e dentro la piccola chiesa… e quando il paese ti accetta dovrai accettare che il tuo campanello sia una semplice decorazione o un capriccio per i corrieri postali: qua si vocia da strada a finestra, non si suona. Non voglio cadere in un ritratto edulcorato, ma è certo che vivere in un simile territorio aiuta nell’immaginare, addirittura amare, la gente “per come dovrebbe essere”, parafrasando una celebre frase di Adorno, poiché inesorabilmente parlare di loro è dire di noi, attraverso una trama sottile di storie passate e presenti che si incontrano accidentalmente, poi sempre più secondo una volontà precisa, une responsabilità che ci tiene insieme nelle nostre solitudini.

Santomoro, Valle delle Due Buri
Santomoro, Valle delle Due Buri

È grazie a queste due vie che mi è sembrato prima utile, poi necessario avventurarmi nei libri di Wendell Berry, scrittore, poeta, agricoltore che si occupa di agrarianismo e territorio, dove il territorio è soprattutto l’insieme dei vivi e dei morti che abita, a volte da generazioni, un luogo, serbandone la memoria nei corpi e nei gesti.  Berry è una figura singolare, radicale e coerente nei temi della sua scrittura come della vita – definisce se stesso il contadino pazzo, è profondamente cristiano, ma in aperto contrasto con un certo attivismo bigotto, con l’intolleranza che le chiese stesse  vedono bene di promuovere. Forse perché i valori spirituali che lo scrittore persegue sono la compassione, la fiducia, il senso di responsabilità verso se stessi e la terra, il “nostro unico mondo” come recita il titolo di una sua raccolta di saggi.  E se la sua visione resta antropocentrica lo è in modo molto disincantato – gli esseri umani di cui scrive sono fragili, vengono da un mondo che scompare, un mondo ideale e concreto insieme, dove il provvedere alla propria sussistenza non coincide affatto con lo sfruttamento della natura fino al suo esaurimento (come se esaurendo lei non esaurissimo anche noi stessi), ma con la fatica di imparare dai ritmi naturali, lavorare e conoscere una terra come una comunità, sapere che senza di lei siamo molto poco, spiritualmente infelici, mutilati. In “Suolo e salute”, uno dei saggi contenuti in Mangiare è un atto agricolo, scrive Berry che “La natura è il valore ultimo del mondo reale e di quello economico” – sembra un’affermazione quasi scontata, ma non lo è quando si è perso di vista la nostra provenienza, quando non siamo più in grado di tracciare mappe affettive dei luoghi, quando la nostra memoria non viene più distillata nell’esperienza, nel tempo, nel racconto dei simili, quando pensiamo la natura come un grande magazzino di scorte inesauribili, senza il minimo interesse per i cicli e le stagioni, senza la cura per la terra, le piante, gli animali che in silenzio hanno cura di noi – ci mantengono in vita. Aggiunge:

“Il benessere è un aspetto contemporaneamente qualitativo e quantitativo, e richiede al tempo stesso benevolenza e quantità sufficiente. È inclusivo (è sinonimo di integrale) perché non esclude nulla. Ed è, senza alcun compromesso, locale e particolare. Riguarda il sostentamento di luoghi, creature, menti e corpi umani specifici”.

Nella corsa al globale Berry è uno di quelli che sta dalla parte della lentezza e del particolare, dunque dei legami profondi tra un umano e l’altro, tra un umano e il suo abitare.  È una scelta che proviene da una formazione culturale, ambientalista e letteraria consolidata in America – è impossibile non pensare ai trascendentalisti, al Thoreau del selvatico e della vita nei boschi, anche se nel nostro autore è il coltivato, la cooperazione evidente fra umano e suolo a emergere -, ma anche dal fondersi della scrittura con il lavoro agricolo: lo scrittore ha infatti di sua volontà lasciato la carriera accademica per far rientro nel Kentucky, riprendere l’attività di famiglia, coltivare i campi. Questo lo rende credibile e affascinante: il suo pensiero e l’utopia della scrittura devono ogni giorno fare i conti con la difficoltà dell’addomesticamento di una terra, della restituzione di sé a un luogo e a coloro con cui viene condiviso.  Nelle sue parole:

“Il regionalismo cui personalmente aderisco potrebbe essere definito soltanto come vita locale consapevole di sé stessa. Tende a sostituire ai miti e agli stereotipi su una regione la conoscenza specifica della vita del luogo in cui un individuo vive e intende continuare a vivere. Riguarda la vita tanto quanto riguarda la scrittura, ma riguarda la vita prima di riguardare la scrittura. Il tema di questo genere di regionalismo è la consapevolezza che la vita locale, per la sua qualità ma anche per la sua continuità, dipende in modo complesso dalla conoscenza locale”. ( Da “Il tema regionale” in La strada dell’ignoranza).

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Abitare un territorio, come scrivere, ha a che fare con la realtà perché si nutre dell’antico nodo fra i viventi, del senso di reciprocità di tutte le cose, dell’essenziale. Non siamo fatti per i grandi centri e i grandi spazi, ci possono attrarre, possiamo visitarli, possiamo errare al loro interno, ma perfino il concetto di nomadismo, come lo percepiamo oggi, viene da un fraintendimento: storicamente, antropologicamente i nomadi non sono i senza fissa dimora, sono piuttosto quei popoli che si sono adattati alla loro terra, viaggiandoci dentro e spostandosi a seconda delle stagioni e del clima, che non hanno tracciato confini e reclamato proprietà, perché istintivamente consapevoli del confine di rispetto, conoscenza o addirittura devozione che la natura traccia in noi. Sono, in altre parole, i primi regionalisti: si muovono sulla terra d’origine imparando a difendersi da lei e a coglierne i doni come dobbiamo fare con il nostro corpo e le sue molte possibilità, i suoi vari tradimenti. Gli esseri umani tendono naturalmente alla dimensione del villaggio, hanno bisogno di ritrovarsi in piccoli gruppi che superano la famiglia, che a volte includono gli alberi, le piante coltivate, il paesaggio attorno. Allora in quel mondo noto perché curato, amato, recuperato, non solo il terreno torna fertile e non viene devastato dalla società della produzione e del consumo a tutti i costi, anche le persone tornano fertili, più capaci di sviluppare il settimo senso, che a me piace chiamare il senso della grazia. La grazia del mondo che è, di chi mantiene i saperi antichi, di chi impara non a vincere, ma a tornare – che vuol dire, forse, accettare che la parola io diventi noi, “fare comunità”, come scrive ancora Berry in un pezzo bellissimo, qualcosa per cui

“la gente non ha bisogno di centri d’incontro, strutture ricreative e tutto il consueto armamentario commerciale per la valorizzazione della comunità. Ha bisogno invece di coltivare l’affetto, la collaborazione e la fiducia nel prossimo. E non è facile. Sappiamo bene che nessuna comunità si muoverà in quella direzione senza sforzi o difficoltà, ma sappiamo anche che quegli sforzi e quelle difficoltà racchiudono più speranze di tutte le meravigliose ricette per espandersi e arricchirsi sfornate dalle università e dalle grandi aziende private negli ultimi cinquant’anni”. (Da “In difesa della piccola fattoria” in Mangiare è un atto agricolo).

Coltivare, insomma, l’intimità con chi ci capita accanto, decidere che vogliamo riconoscere qualcuno, che oltre al progresso o al regresso ci sono altre vie laterali, circolari, vie che uniscono famiglie e persone, che riconducono le analisi di studiosi e accademici alla sostanza di cui siamo umilmente fatti, non al grande progetto, ma al crescerle davvero quelle zucchine negli orti, al tacere di più o parlare con più convinzione perché il nostro interesse è l’interesse dell’altro, perché ciò che ci trattiene dall’esprimere sentenze o che ci spinge a esporci è di volta in volta la paura di ferire l’amica o l’amico, il compaesano, o il desiderio di dire ciò che lei, lui non sa dire. Non ho paura di suonare ingenua – anche io credo come Berry che sia inestimabile il valore di ciò che si conosce tramite la compassione, tramite lo sforzo costante di metterci al pari, di avvertire l’importanza di ognuno e che ognuno è infine piccolo, poca cosa, leggero, come sono leggeri i disprezzati insetti che tutto trasformano. Ma i piccoli quando si uniscono sanno essere sciame indistruttibile, specialmente se difendono la loro provenienza. Così l’autore invita a “una rivolta dei piccoli produttori e consumatori locali contro l’industrialismo globale delle corporation” e continua:

“Penso davvero che esista la speranza che una rivolta di questo tipo sopravviva e abbia successo, e che possa avere una considerevole influenza sulle nostre vite e sul nostro mondo? Sì, lo penso davvero”.

È una rivolta che non avviene solo attraverso il lavoro agricolo, ma anche nella parola – i tempi fagocitanti, l’iperproduttività, il mercato, sono forze che alienano l’individuo dalla natura del suo corpo come da quella del suo linguaggio, portandolo a esprimersi per slogan e formule, per commistioni di lingue diverse, apprese male e digerite peggio, per condanne e giudizi invece che per frasi meditate, capaci di esprimere spirito critico, ragionevolezza, l’ironia di un dialogo aperto con l’altro e col mondo. Nel suo saggio “In difesa della lingua” (La strada dell’ignoranza), scrive:

“la competenza linguistica – la padronanza della lingua e la conoscenza dei libri – non costituisce un ornamento, ma una necessità. Si tratta di una conoscenza priva di praticità soltanto dal punto di vista del profitto facile e del potere immediato. Una prospettiva più ampia dimostrerà che soltanto questo genere di competenza può preservare in noi la possibilità di un giudizio fedele su noi stessi, la possibilità di correggerci e rinnovarci.  Senza di essa restiamo alla deriva nel presente, tra i relitti del passato, nell’incubo del futuro”.

Restiamo nell’inconsapevolezza e in un coro senza voce, dove nessun volto è identificabile, nessun vincolo autentico di amicizia può essere stretto. Proprio dal bisogno di raccontare storie corali, che resistono anche quando chi le ha composte invecchia e muore, nascono i romanzi di Wendell Berry, una serie dove ogni libro corrisponde alla vicenda di un abitante del villaggio fittizio di Port William nel Kentucky, ispirato a Port Royal, luogo d’origine dell’autore. Ogni romanzo ci dona un punto di vista diverso su un mosaico di gruppi familiari uniti nella famiglia comunitaria. Le parabole che abbiamo alla fine non sono ritratti di esseri umani vincenti, ma minoritari, di quelli che verranno classificati come nostalgici, ostinatamente attaccati al passato e all’asprezza della terra, condannati a morire. Eppure io resto convinta che i messaggi più duraturi sono quelli sottili, che migrano da singolo a singolo, che sembrano non penetrare le masse, che hanno il rumore dell’acqua dei torrenti presso cui capita di prendere dimora: sempre lì, sempre fruscianti e indispensabili, anche se dimenticati. È la vecchia Hannah Coulter che scelgo per concludere. Dice Hannah che la comunità si compone dei vivi e dei morti e che “i vivi hanno il dovere di proteggere i morti”. Il dovere di far spazio al loro silenzio, di chinarci sulle radici che da loro si diramano e ci sostengono e divenire forti: i protettori di quello che è stato, i protettori del primo pezzo d’erba su cui abbiamo camminato, della prima storia ascoltata, mandata a mente. È in questo che siamo più grandi delle nostre minuscole vite, quando le proiettiamo nell’eredità – non dei possedimenti e delle onorificenze, ma dei veri beni materiali: l’amore, la solidarietà, il ricordo dove il passato non era, ma è, dove siamo restituiti ai luoghi del nostro potenziale, i luoghi dove ci immaginiamo e ci modelliamo migliori, come si restituisce la cenere di una persona cara allo zoccolo del cavallo più amato, alla polla e al sole, al suolo.

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***

Tutti i libri di Wendell Berry sono pubblicati in Italia da Lindau. Ringrazio Edoardo Rialti che per primo mi ha messo in contatto con la casa editrice e Francesca Ponzetto dell’Ufficio Stampa per la sua gentilezza e il suo entusiasmo.

2 COMMENTS

  1. “la competenza linguistica – la padronanza della lingua e la conoscenza dei libri – non costituisce un ornamento, ma una necessità. Si tratta di una conoscenza priva di praticità soltanto dal punto di vista del profitto facile e del potere immediato. Una prospettiva più ampia dimostrerà che soltanto questo genere di competenza può preservare in noi la possibilità di un giudizio fedele su noi stessi, la possibilità di correggerci e rinnovarci. Senza di essa restiamo alla deriva nel presente, tra i relitti del passato, nell’incubo del futuro”.

  2. Si. Parlando di Orsigna era d’obbligo parlare un pó diffusamente di chi Orsigna la scoprí da bambino….poi si costruí due stanze andando con un carretto a prelevare pietre giú nel torrente e dove (sempre a Orsigna) ci volle tornare a morire (….’Paradise is here…’) E sempre a Orsigna dedicó bellissime pagine….Parlo di Tiziano Terzani, un grande amico. E sempre piú a Orsigna-paradiso trascorre i suoi giorni la moglie Angela. Ed essere parte della terra in cui abitiamo era un credo fondamentale di Tiziano.
    Cosí, solo per precisare chi era parte fondamentale dello spiritus loci. Un italiano, un grande italiano….

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.