Nuovo Cinema Teheran
di Jamila Mascat
Questo articolo* è stato pubblicato sul numero 30 di Reportage**.
*Le foto sono mie e non sono un granché, perché le ho scattate con lo stesso spirito con cui si prendono appunti su un foglio di carta a portata di mano; o anche con lo stesso spirito sciatto con cui si scattano in salone le foto di famiglia al compleanno di una prozia che compie 86 anni, sperando che prima o poi tutti guardino in direzione dell’obiettivo (cioè nel solo modo in cui so scattarle io, che sciaguratamente tratto le foto di viaggio come post-it, promemoria, hard disk esterno). Ringrazio Riccardo de Gennaro per averle pubblicate lo stesso.
**In questo numero di Reportage ci sono anche, tra le altre cose, un’intervista al fotografo Paolo Di Paolo (che ha regalato alla rivista alcuni suoi scatti inediti e non), un pezzo sul reinserimento dei guerriglieri delle Farc colombiane nella società civile (Virginia Negro, foto di Fabio Cuttica) e uno sulla Carovana delle Madres del Centro America alla ricerca dei figli scomparsi in Messico (Orsetta Bellani), un servizio sulla Ferriera di Servola, una sorta di “caso Ilva” a Trieste (Erika Cei), un fotoreportage da Ushuaia, Terra del Fuoco (Emanuele Camerini e Nola Minolfi), un portfolio sulla transumanza dalla Puglia al Molise (Luciano Baccaro), una riflessione di Gilda Policastro su “comunismo e comunismi”, un’intervista a Giorgio Vasta su Absolutely Nothing (di Maria Camilla Brunetti), l’editoriale di Riccardo De Gennaro su un ipotetico Libro Nero del cattolicesimo e molto altro ancora.
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NUOVO CINEMA TEHERAN
Ex cinema Cristal, con il tetto spuntato, a Lalehzar, Teheran.
Il quartiere di Lalehzar prende il nome dalla strada omonima che collega perpendicolarmente due lunghe e trafficate arterie orizzontali della capitale: a sud Imam Khomeini (questo l’appellativo con cui gli iraniani sono soliti riferirsi all’Ayatollah) e a nord Enghelab – il viale della Rivoluzione Islamica sui cui s’affacciano i monumentali cancelli dell’Università di Teheran e che nel giugno del 2009, dopo la rielezione truccata di Mahmoud Ahmadinejad, fu uno degli epicentri delle proteste dell’Onda verde, teatro di scontri tra i paladini del regime e i sostenitori dell’ex candidato rivale Mir Hossein Mousavi.
Per oltre un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla deposizione dell’ultimo degli Shah nel 1979, a cavallo tra le dinastie Qajar (1796-1925) e Pahlavi (1925-1979), Lalehzar fu l’espressione emblematica della “via iraniana alla modernizzazione” e insieme il riflesso delle contraddizioni di questa paradossale esperienza che, recentemente, con il nuovo corso diplomatico inaugurato dalla presidenza di Hassan Rohani, ha conosciuto una rinnovata e controversa accelerazione.
Quartiere dei cinema e dei cabarets, dei café e delle promenades, dei dandy e dei romantici, delle boutiques e della dolce vita, oggi Lalehzahr conserva ben poche tracce delle effervescenze di un tempo. Esaurito il bagliore delle luci della ribalta, la strada – un rettilineo a senso unico di un certo respiro ma congestionato dalla presenza rumorosa di automobili e ciclomotori – pullula ormai di nuove luci: il neon delle lampade e dei lampadari in vendita nei negozi di illuminazione – decine e decine – che si susseguono uno dietro l’altro su entrambi i marciapiedi, tra i ruderi degli edifici art déco e i resti spettrali delle sale cinematografiche chiuse poco dopo la Rivoluzione.
Quel che resta delle luci della ribalta, Lalehzar, Teheran.
Il nome del quartiere Lalehzar (in farsi “letto di tulipani”) deriva da quello di un antico giardino fiorito situato appena fuori dalle mura della città, che ancora intorno alla prima metà dell’800 era adibito a parco di ricreazione della famiglia reale e della corte dello Shah Mohammad. L’inclusione di Lalehzar nel tessuto urbano di Teheran rimonta alla metà degli anni Sessanta quando l’espansione demografica convinse il suo erede Nassereddin a demolire la cinta muraria. Così da giardino reale privato, Lalehzar divenne un parco pubblico frequentato per lo più dai notabili della buona società.
Dopo quasi mezzo secolo di regno e di riforme impopolari, nel 1890, Nassereddin cedette in cambio di un compenso il monopolio della manifattura del tabacco iraniano al maggiore britannico Gerald Talbot per tutto l’arco dei successivi cinquant’anni, alienandosi definitivamente le simpatie dei sudditi, e danneggiando particolarmente gli interessi delle centinaia di migliaia di contadini e bazaris la cui sussitenza all’epoca dipendeva dal commercio di questo prodotto. La fondazione della Imperial Tobacco Corporation of Persia suscitò in poco tempo la vivace opposizione dei religiosi e una massiccia campagna di boycottaggio del fumo che trovò consensi, così vuole la leggenda, perfino tra le donne dell’harem dello Shah.
Quando la fatwa dell’Ayatollah Mirza Shirazi sancì finalmente la proibizione del consumo di tabacco, e quando le proteste scatenate per la prima volta dall’alleanza tra il clero, la borghesia mercantile e gli intellettuali patrioti in difesa della nazione, divamparono in tutto il paese, Nassereddin si trovò obbligato a revocare il monopolio. Ma a quel punto le casse dello stato precipitarono sul lastrico per risarcire la compagnia britannica della somma dovuta di 500mila sterline. Fu così che Lalehzar, letteralmente fatto a pezzi e venduto ai migliori offerenti, divenne il nuovo quartiere residenziale dell’aristocrazia di Teheran e delle ambasciate e, nel giro di un ventennio, si trasformò nell’avanguardia culturale della capitale.
Come a Broadway
Distretto raffinato e alla moda, che Nassereddin aveva concepito come una copia persiana degli Champs Elysées da cui era rimasto folgorato durante uno dei suoi viaggi a Parigi, Lalehzar incarnò fin da subito l’eccezione nazionale. Qui furono realizzate la prima linea tramviaria e la prima linea telegrafica della città. Qui soltanto si potevano acquistare oggetti costosi di fabbricazione europea – sigari, profumi, cappelli, telescopi, grammofoni e radio ultimo modello – che nelle vetrine si mescolavano a vecchie cianfrusaglie da pochi soldi. Qui musulmani, ebrei, armeni e zoroastriani vivevano in pace facendo affari gli uni con gli altri in un’atmosfera multiconfessionale inimmaginabile altrove. Infine, sempre qui a Lalehzar, già prima del decreto regio del 1932 che avrebbe proibito alle donne di indossare il velo negli spazi pubblici, le iraniane della classe media andavano a spasso liberamente senza copricapo, col parasole e le scarpe da charleston. In carrozza o più raramente a piedi, le donne erano autorizzate a camminare sul lato est della strada, mentre agli uomini era riservato il lato ovest. La separazione dei sessi si rispecchiava nella distribuzione degli esercizi commerciali che continuarono a ricalcare questa divisione di genere anche più tardi, quando la legge consentì a chiunque di passeggiare indistintamente a destra e a sinistra.
Per tutte queste ragioni, gli abitanti di Teheran che vissero gli anni d’oro di Lalehzar, la ricordano come il paradiso dei voyeur: un luogo abbagliante che si offriva alla contemplazione degli avventori di qualsiasi provenienza.
Chi veniva da queste parti, veniva a godersi lo spettacolo: la sofisticata eleganza delle élites cosmopolite, le merci di lusso esposte in bella mostra, oppure le stonature di una contrastata modernità d’importazione coloniale e, infine, i film muti al Grand Cinema. A vent’anni dall’allestimento del primo spazio cinematografico in città, nel cortile del negozio di un antiquario amante e pioniere della cinepresa che con un kinetoscopio Edison proiettava filmati russi per un pubblico aristocratico seduto sul tappeto, nel 1924 fu inaugurata la prima grande sala moderna della capitale nell’auditorium del Grand Hotel di Lalehzar con una platea che avrebbe potuto ospitare fino a 500 persone, purtroppo in principio soltanto uomini.
Il quartiere, che a distanza di altri vent’anni, avrebbe conosciuto un incremento esponenziale dei luoghi di intrattenimento – sedici cinema e sei teatri intorno al 1950 – sarebbe stato accreditato a metà del secolo scorso come la nuova Broadway di Teheran.
Una locandina che mi sembrava un po’ kitsch, vicino al Cinema Pardis Gholak, Nord Est di Teheran.
Fuoco e fiamme
Allo Shah Nassereddin, assassinato nel 1896, successe il figlio Mazaffareddin. Entrambi esterofili e sensibili al fascino delle nuove arti alla moda, i due Shah si vollero rispettivamente promotori della fotografia e del cinema nazionale.
Nassereddin fu immortalato per la prima volta nel 1842 all’età di 13 anni da un apparecchio che la regina Vittoria aveva regalato a suo padre Mohammad. Da allora avrebbe coltivato la passione per i dagherrotipi, ritraendo se stesso, le sue numerose spose, e i suoi altrettanto numerosi figli, collaboratori e servitori. Perciò all’interno della residenza reale, il palazzo del Golestan, face costruire uno studio sotterraneo che ancora oggi ospita una piccolissima parte – una cinquantina di immagini – della ricca collezione fotografica dello Shah.
Il suo erede al trono, Mazaffareddin, visitò Parigi nell’estate del 1900 in occasione dell’Expo Universelle dove si appassionò alle proiezioni del cinematografo. Poche settimane dopo, a Ostend, in Belgio, il fotografo di corte che lo Shah aveva incaricato di procurarsi una telecamera e la pellicola necessaria, tentò con successo le riprese primo film iraniano – a dispetto del titolo francese “La fête des fleurs” – che documentava la partecipazione dello Shah al festival floreale della città. In questo senso si può dire che il cinema in Iran nacque agli albori della storia del cinema tout court.
Aniss-Od-Dole, una delle spose favorite di Nassereddin, fotografata dallo Shah nel 1861. La foto è stata a sua volta fotografata da me, al Palazzo del Golestan, Teheran.
La sua tenuta esprime la quintessenza del dress code femminile di epoca Qajar.
L’artista Shadi Ghadirian ha dedicato una serie di fotografie alla rivisitazione dell’abbigliamento iconico delle donne Qajari.
A partire dagli anni Venti del secolo scorso, ovvero a partire dall’avvento della dinastia Palhavi alla guida del paese, fasti e miserie di Lalehzar si andarono intrecciando alle fortune alterne del cinema iraniano, in bilico tra creazione autonoma, censura e propaganda. A pochi anni dalla proiezione al cinema Mayak nel 1931 del primo lungometraggio made in Iran – la commedia muta Abi o Rabi di Ovanes Ohanian, andata perduta, il pubblico iraniano entrò nell’era del suono principalmente attraverso l’importazione di film stranieri sottotitolati, che rimanevano purtroppo inaccessibili alla maggioranza della popolazione analfabeta e incontravano le ostilità delle autorità religiose perché considerati immorali. Gli anni Quaranta accelerarono lo sviluppo dell’industria cinematografica di stato, assistettero alla nascita e alla diffusione di un nuovo genere popolare, il filmfarsi, una sorta di Bollywood iraniano, e parallelamente inaugurarono il doppiaggio delle pellicole occidentali. Negli anni Cinquanta, in piena Guerra Fredda, l’Agenzia statunitense per l’informazione, l’Usis (United States Information Service), con il supporto del governo iraniano, lanciò una campagna per distribuire in tutto il paese filmati di vario argomento realizzati negli Stati Uniti insieme a cinegiornali locali incentrati su temi di interesse comune – dall’alimentazione alla geografia alla sanità – concepiti per trasmettere alla popolazione un’immagine positiva del regime di Reza Pahlavi. Negli anni Sessanta e Settanta fu la volta della nouvelle vague del cinema iraniano d’autore, da allora conosciuto e apprezzato in tutto il mondo.
Il 19 agosto del 1978, l’incendio del cinema Rex di Abadan in cui persero la vita quasi 500 persone per mano dei sostenitori di Khomeini, segnò crudamente la fine di una epoca. L’anno successivo, l’anno della Rivoluzione islamica, fu per il cinema iraniano il culmine della devastazione: 180 sale su 451 furono rase al suolo – di cui 32 solo a Teheran. Le proporzioni di questo fenomeno non si comprendono se non si coglie la valenza marcatamente politica attribuita al cinema nel contesto nazionale.
Il Cinema Africa (ex Cinema Atlantic), Teheran, ma potrebbe essere Piazza Bologna a Roma.
I cinema risparmiati dai sostenitori di Khomeini vennero comunque sottoposti a una “campagna di purificazione” per rimuovere le tracce di quei nomi alieni che incarnavano lo spirito della Rivoluzione Bianca e filoccidentale dello Shah. Attingendo al registro anticoloniale e panislamico del lessico politico della nuova Repubblica, il cinema Atlantic fu ribattezzato cinema Africa, l’Empire Esteqlal (indipendenza), il Panorama Azadi (libertà), il Polidor Qods (Gerusalemme) e così via.
La produzione cinematografica andò incontro a un destino simile e i film reputati moralmente incompatibili con l’islam o compromessi con il vecchio regime furono censurati e banditi dalla circolazione, mentre dall’Italia arrivavano gli spaghetti western, dal Giappone le arti marziali, e dalla Russia le pellicole sovietiche. Si racconta, inoltre, che nei primi mesi dopo la deposizione di Reza Palhavi, La battaglia di Algeri venisse applaudito nelle sale della capitale. Nel corso di questi anni tormentati, Lalehzar fu una cassa di risonanza dell’asfissia autoritaria a cui, a dispetto delle apparenze, fu sottoposta la società iraniana durante il regime dello Shah e della furia palingenetica che accompagnò i primi passi della Rivoluzione islamica. Negli anni Cinquanta e Sessanta alla progressiva dipartita dalla scena pubblica delle élites intellettuali legate al Tudeh, il partito comunista iraniano nel mirino della Savak (la temibile polizia dello Shah), fece da contraltare l’ascesa di Muḥammad Karim Arbab, il nuovo “Padrino” di Lalehzar, che in pochi anni prese possesso di diversi locali nel quartiere e del monopolio del whisky di contrabbando nella capitale. Questa congiuntura alterò la composizione sociale del pubblico di Lalehzar, sempre più marcatamente popolare, e trasformò l’offerta culturale disponibile: al cinema si imposero le commedie musicali, al teatro subentrarono il cabaret e le danze burlesque, all’intrattenimento si sostituì l’alcol. La parabola si era già compiuta prima del 1979. La rivoluzione perciò fu il soltanto il colpo di grazia che pose materialmente fine alla movida del distretto.
Scheletro dell’ex cinema Metropolis, lampadari e motorini con il parabrezza, Lalehzar, Teheran.
Love story
Hamid Nafisi, che insegna nel dipartimento di studi culturali della Northwestern University di Chicago, ha provato raccontare in quattro volumi la tormentata passione degli iraniani per il cinema, animata di volta in volta da pulsioni nazionaliste o occidentaliste. La sua Social History of Iranian Cinema (2011-2012) non è un libro di storia, ma, davvero, come suggerisce l’autore, una “autobiografia culturale” dove le avventure del cinema iraniano si intrecciano alle disavventure della sua famiglia, dinastia intellettuale originaria di Isfahan, la cui generazione a cavallo della Rivoluzione, per lo più militante tra le fila dei comunisti e dei gruppi armati della sinistra radicale, partecipò attivamente alla lotta contro il regime dello Shah per poi essere brutalmente repressa, incarcerata e liquidata dagli islamisti al potere.
Alireza, cugino di Hamid, un immunologo in pensione, ricorda le prime esperienze estenuanti nelle sale di Isfahan, tra blackout, apparecchi malfunzionanti e interruzioni continue: “A volte per riuscire vedere un film di mezz’ora bisognava tornare al cinema tre volte”. I multisala giganteschi, all’interno di altrettanto giganteschi centri commerciali, che da pochi anni hanno cominciato a diffondersi in tutto il paese, non gli interessano per niente anche se funzionano alla perfezione. Alireza confessa di non essere più andato al cinema da così tanti anni, che non sa nemmeno dire esattamente quanti sono. Se il cinema degli anni Settanta “esprimeva una promessa di società che questo paese non ha saputo mantenere”, per lui è inutile continuare a sperare.
Sala vuota nel Multisala Cineplex, Kourosh Complex, Teheran.
La seconda delle sue figlie, Nahal, 39 anni, vive a Teheran, dove insegna antropologia culturale, e come molti iraniani della sua età, alle sale cinematografiche ultramoderne, e spesso deserte, preferisce i giardini persiani. Per colpa della sua ricerca etnografica sulla poetica dell’evasione e dell’ordinario, è condannata a una flânerie perpetua per le strade della capitale, a collezionare cartoline, a fotografare gatti e piante grasse. Abita a pochi passi dall’ex carcere di Al Qasr, la memorabile prigione del regime di Reza Palhavi che rimase tale anche dopo la Rivoluzione islamica e fu adibita a museo nel 2012. Qui dentro furono fucilati due dei suoi zii nel 1988, sebbene dei corpi non sia mai stata rinvenuta alcuna traccia. A Lalehzar, che si trova a pochi chilometri da casa sua, Nahal va spesso a piedi in cerca di oggetti apparentemente insignificanti. Mi spiega la stratificazione spettrale del quartiere: in basso, al piano terra, le luci scintillanti dei negozi aperti, in alto i palazzi fatiscenti, eppure ancora imponenti, del secolo scorso che fungono da magazzini con le insegne luminose che non luccicano più, e dentro, stipati e invisibili, i lavoratori a cottimo che montano i pezzi in vendita al piano di sotto. La dolce vita è lontana, ma il caos non manca. Dopo aver trascorso l’infanzia ad aspettare la fine della guerra contro l’Iraq, la postadolescenza a sperare nelle riforme di Khatami, il predecessore di Ahmadinejad, e l’età adulta a fare i conti con i contraccolpi del post-2009, Nahal fa fatica a immaginare una transizione qualunque per il suo paese, con o senza sanzioni, con o senza multisala.
Lalehzar “dove l’invasione dell’ordinario ha contraffatto perfino i desideri di evasione”, le sembra in questo senso una buona metafora dell’Iran contemporaneo.
Una foto qualunque (e anche un po’ sfocata) scattata attraversando la strada, da un cavalcavia di Enghelab, a Nord di Lalehzar, Teheran.