La parallasse di Žižek
di Davide Gatto
Cosa significa teorizzare lo scarto di parallasse come “primo passo necessario verso la riabilitazione della filosofia del materialismo dialettico”?1
Slavoj Žižek ha concepito La visione di parallasse (2013) come un’opera sistematica, articolandola in tre ampie sezioni – “filosofica, scientifica e politica” – in cui l’approfondimento speculativo è corroborato dal dibattito a distanza con pensatori e scienziati, nonché da argomenti desunti dai più disparati campi dell’esperienza umana, non escluse l’aneddotica storico-politica, il gossip e persino le barzellette.2
Il proposito dichiarato del libro fa giustamente presagire il ricorso sistematico a Hegel e a Marx, che però Žižek coniuga con pensatori tradizionalmente estranei all’orizzonte materialista – Kant innanzitutto, poi Kierkegaard e Heidegger – leggendo i loro contributi con la lente del beneamato Lacan, i cui Seminari disegnano confini e morfologia del campo speculativo.
Lo strumento metaforico di questo paradossale avvicinamento di filosofi materialisti e filosofi “idealisti” via Lacan è – appunto – il concetto di parallasse, attinto al linguaggio settoriale della fisica e della fotografia e così definito: “il dislocamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto allo sfondo) causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che determina un nuovo asse visivo”.3
È lo stesso Žižek però a sgombrare subito dopo il campo da un facile equivoco, cioè che lo sdoppiamento dell’oggetto – dell’intero campo dell’esperienza – dipenda banalmente dall’angolatura epistemologica del soggetto e sia pertanto solo apparente. In realtà approccio conoscitivo e statuto dell’oggetto sono reciprocamente implicati nel delineare una paradossale ontologia duale tutta immanente per cui l’intera realtà, ogni cosa, è sempre accompagnata da un’ombra indefinibile che la raddoppia e la complica.
Per quanto l’Autore esemplifichi questa dualità intrinseca delle cose anche con il riferimento scontato alla meccanica quantistica e alla neurobiologia, è il ricorso a un passo dell’Antropologia strutturale di Lévi-Strauss che gli permette di fare definitiva chiarezza su questo punto fondamentale.4
L’antropologo strutturalista spiegava che i due sottogruppi della tribù dei Winnebago da lui studiata rappresentavano il loro villaggio in due modi differenti, entrambi distanti dall’oggettiva disposizione delle case: gli uni disegnavano sulla sabbia un anello di capanne intorno a un tempio centrale, gli altri due agglomerati “separati da una frontiera invisibile”.5
Žižek, interpretando Lévi-Strauss, chiarisce che questa divaricazione prospettica dipende sostanzialmente dall’irrappresentabilità della pianta urbanistica effettiva, necessariamente filtrata e distorta agli occhi dei Winnebago dalla lente delle tensioni sociali che – avrebbe detto Lacan – deformano il campo ordinatamente strutturato del Simbolico.
Dato poi che l’assunto materialista esclude qualsiasi apertura metafisica, la pianta urbanistica effettiva, la Cosa in sé del villaggio, non è per noi dislocata in un Altrove noumenico – accessibile o non accessibile che sia; essa, del tutto immanente, è ineluttabilmente e ontologicamente segnata dall’effetto-ombra con cui la percepiamo, dallo “scarto intrinseco all’Uno”, dalla “differenza minima che segna la non-coincidenza dell’Uno con se stesso”.6
Più precisamente l’Autore sostiene che “c’è un Reale; questo Reale, però, non è la Cosa inaccessibile, ma lo scarto che ci impedisce di accedervi, lo “scoglio” dell’antagonismo che deforma la nostra visione dell’oggetto percepito attraverso una prospettiva parziale”.7
E conclude: “La verità esiste, non è tutto relativo, ma questa verità è la verità della deformazione prospettica in quanto tale, non la verità distorta dalla visione parziale di una prospettiva unilaterale.”8
A voler essere rigorosi però, bisogna riconoscere che le parole con cui Žižek si sforza di spiegare che l’asserita dualità è nell’Essere e non nella debolezza teoretica di chi lo indaga appaiono poco convincenti, soprattutto quando afferma che il Reale è precisamente il prisma che divarica le prospettive lontano dalla “Cosa inaccessibile”. Quindi dietro le quinte del fenomenico la “Cosa inaccessibile” esiste? È Qualcosa? E in che modo differisce dal noumeno di Kant o da una Sostanza divina? La chiave per venire a capo di questa apparente aporia è naturalmente Lacan.
“Un Reale impossibile, un vuoto che nonostante tutto funziona” (9)
Tanto fitti e determinanti sono i richiami a Lacan all’interno delle quasi 600 pagine del saggio che le coordinate del suo pensiero sono per il lettore imprescindibili. Semplificando, ciò che guida l’individuo è l’inconscio, che è però da sempre rimosso a causa di un interdetto originario. L’orizzonte esclusivo che si dischiude dinanzi a noi, dunque, non può che essere quello conscio che, come un linguaggio, ha in primo luogo la valenza strumentale e secondaria – propriamente “simbolica” – di significare il materiale inconscio rimosso. Ne consegue che ogni nostro comportamento, ogni nostro pensiero non è in primo luogo che il Significante di un Significato nascosto e definitivamente inaccessibile di cui in certo modo costituisce il sintomo. Va da sé che ogni oggetto della nostra esperienza risulta in tal modo potenzialmente raddoppiato, dal momento che entro la cornice apparentemente assoluta del nostro reale esso acquista un senso dalla relazione con gli altri oggetti10, mentre di fatto e, per altro verso, esso altro non è che il Significante di un Significato vuoto perché da sempre rimosso.
È lo stesso Žižek a precisare come “non ci sia nessun “mondo” al di fuori del linguaggio, nessun mondo il cui orizzonte di significato non sia determinato da un ordine simbolico”. Dobbiamo arguirne che così come il parlare metaforico deve per forza appoggiarsi su un senso letterale autonomo di cui costituisce l’ombra non necessaria, allo stesso modo la realtà che sperimentiamo ha un senso autonomo che sta a noi cogliere anche come riflesso di un Significato originario cancellato una volta per tutte dalla rimozione e dal conseguente ingresso nell’ordine Simbolico. Ecco dunque che alla Cosa inaccessibile corrisponde – propriamente parlando – un Vuoto, il Nulla, “un vuoto che nonostante tutto funziona, esercita influenza, causa effetti, curva lo spazio simbolico”.11
La tradizionale dicotomia tra realtà (la dimensione delle essenze) e apparenza (il luogo destituito di verità dei puri fenomeni) viene a cadere, dato che la prima non esiste se non come apparenza, ovvero ogni apparenza è il modo sempre imperfetto di riempire sul versante del Simbolico – l’unico nel quale si svolge la nostra vita – il vuoto che ad esso corrisponde sull’altro versante dell’inconscio. Quando guardiamo le cosiddette apparenze, quindi, noi stiamo guardando di fatto la realtà, ma mediata dal filtro-linguaggio simbolico, analogamente a quanto ci accade quando osserviamo la scena di un quadro attraverso la sua cornice: “la configurazione parallattica minima” è caratterizzata da “un certo effetto di surplus” derivato dal fatto che “le medesime cose che prima guardavamo “direttamente” vengono ora viste attraverso la cornice.”12
Ovviamente – precisa Žižek – “non esiste alcuna realtà “neutrale” (…) in cui le cornici isolino la sfera delle apparenze”: “Ogni campo della “realtà” (ogni “mondo”) è già da sempre incorniciato e visto attraverso una cornice invisibile.”13
Per quanto invisibile, tuttavia, questa cornice lascia immaginare una superficie vuota sottostante su cui l’immagine dipinta – l’apparenza – si accampa. A migliore comprensione l’Autore rinvia ad alcuni celebri dipinti (Quadro rosso su sfondo bianco di Malévich, Hopper, Madonna di Munch e i quadri di Hopper) in cui l’artista ha volutamente enfatizzato lo scarto tra due cornici, tra la cornice per così dire naturale della nostra percezione – il punto di osservazione imposto dal taglio prospettico della scena rappresentata – e la cornice esterna: in questa fascia intermedia si situa lo spazio paradossale del Vuoto originario – Vuoto perché da sempre rimosso – su cui le cose sembrano per così dire gettate come materiale di riempimento, un vuoto senza il quale di fatto neppure percepiremmo la sfasatura tra “realtà” e “apparenza”, esattamente come accade quando pensiamo al vuoto cosmico prima del Big Bang. 14
La “Cosa inaccessibile” quindi non esiste come sostanza separata, ma paradossalmente come alone vuoto che incornicia ogni oggetto della nostra esperienza e lo raddoppia in modo imprevedibile, perché nel dominio esclusivo della materia ogni vuoto è destinato ad essere riempito: le case dei Winnebago sono disposte in un certo modo, ma anche in un altro variabile a seconda di come i due sottogruppi della tribù hanno riempito il Vuoto inafferrabile che ai loro occhi le incorniciava. Con questo “statuto del Reale (…) puramente parallattico e, quindi, non sostanziale” si sono misurati secondo Žižek anche Kant e Hegel, con diversa fortuna. 15
Con la svolta trascendentale Kant avrebbe inaugurato una terza via tra gnoseologia empirista, del tutto immanente, e gnoseologia razionalista, di fatto trascendente, poiché deduce la comprensione dei fenomeni da a priori universali e ideali. Per Kant, gli a priori esistono, ma non sono né trascendenti né sostanziali, visto che consistono di strutture puramente formali (le categorie) che resterebbero vuote se in esse non si riversassero i contenuti dell’esperienza fenomenica.16
Se da una parte quindi Kant riporta gli assunti di base del razionalismo nel fenomenico, depotenziandoli, dall’altra però ammette l’esistenza di un dominio della Ding an sich, della Cosa in sé, che sfugge costantemente alla presa delle categorie trascendentali e quindi alla conoscenza. Sarebbe questo, secondo Žižek, il riconoscimento di una parallasse fondamentale tra il fenomenico, imbrigliato dalle maglie delle categorie come il Simbolico di Lacan lo è dalle regole stringenti del linguaggio, e il noumenico inafferrabile che tuttavia amplifica i fenomeni oltre i confini della loro conoscibilità. Il limite di Kant, naturalmente, è aver dislocato il noumenico in un altrove trascendente invece di coglierlo come un elemento fenomenico eccessivo, trasgressivo, irrazionale che spunta a riempire lo sfondo vuoto su cui i fenomeni si stagliano, raddoppiandoli. 17
Più meritevole ancora è Kant, quando distingue il giudizio negativo da quello indefinito: dire che “lui non è umano” è ben diverso dal dire che “lui è inumano.” In quest’ultimo caso infatti si apre una dimensione terza tra lo statuto di uomo e quello di bestia, quello di un uomo-bestia che implica che “l’eccesso da combattere è del tutto immanente, sta al cuore della soggettività stessa.”18
Se Kant ha intuito ma non sistematizzato – e soprattutto non riconosciuto come intrinseco ai fenomeni – lo statuto parallattico del reale, l’Hegel della triade dialettica sembra averne avuto una consapevolezza piena, a patto di non dare al suo pensiero la connotazione metafisica che taluni gli attribuiscono. Ripercorrendo alcuni passi della “Filosofia dello Spirito” e della Scienza della logica, Žižek insiste “lacanianamente” sul fatto che lo Spirito e il Soggetto non esistono in sé, come Universali a priori o, per dirla alla Kant, come Cose in sé dislocate nella dimensione separata del noumenico.19
Al contrario, è il movimento libero dello Spirito, “radicalmente desostanziato”, che nel momento propriamente dialettico dell’incontro-scontro tra i particolari concreti (Antitesi o negazione, ma anche il dominio anarchico e osceno dell’inconscio pre-simbolico) pone se stesso retrospettivamente (Tesi, ma anche ingresso nel Simbolico per effetto di una castrazione/interdetto originari).20
In questo schema il momento speculativo finale della Sintesi (Aufhebung, negazione della negazione) aprirebbe uno spazio inedito analogo a quello del giudizio indefinito di Kant, uno spazio terzo consapevolmente parallattico in cui per esempio l’uomo astrattamente e rigidamente definito risulta non-uomo, ovvero un uomo attraversato da continui rigurgiti del suo inconscio. Ciò su cui Žižek pone l’accento in questa rivisitazione parallattica di Hegel è che la sua “riconciliazione” non ricompone lo scarto in una sintesi superiore, ma lo conserva in quanto tale.21. Inoltre il luogo in cui esso si manifesta non è il termine astratto dell’essenza (il reale), ma quello concreto dell’apparenza: un’osservazione decisiva per salvaguardare l’assunto materialista di base e per fare di Hegel il fondamento più solido di Lacan.22
Dire infatti che l’essenza affiora a margine di ciò che appare, per la percezione di una sorta di incompletezza dell’apparenza, significa cogliere lo scarto tra le cose che ci si squadernano davanti agli occhi (i Significanti dell’ordine simbolico) e il “vuoto del loro luogo di inscrizione”, “la superficie vuota della cornice” (il materiale inconscio rimosso)23.
Assodato dunque che l’intera partita dell’esistenza e della conoscenza per noi si gioca esclusivamente nella dimensione immanente (Simbolica per Lacan) del molteplice, la nozione di trascendenza altro non è che una “illusione prospettica”sollecitata dalla parte vuota dello scarto parallattico: non esiste alcun dio, né alcun regno delle Idee o del Noumeno.24
Resta da chiarire l’implicazione di epistemologia e ontologia nella definizione di questo statuto parallattico del reale. In fondo, se lo spazio esclusivo dell’ordine Simbolico nasce a causa di una rimozione originaria, la parallasse ontologica del mondo non può che derivare da una parallasse originaria del Soggetto.
Lo statuto parallattico del Sé, tra determinismo neuronale e libertà
Attraverso una disamina articolata e puntigliosa del pensiero di neuroscienziati e filosofi cognitivisti che occupa un intero capitolo del libro 25, Žižek conclude che “se penetriamo la superficie di un organismo e guardiamo sempre più in profondità, non troviamo mai un elemento centrale di controllo che sarebbe il suo Sé, che tira in segreto le fila dei suoi organi.”26
Tra gli altri è Dennett a interpretare l’attività mentale in modo completamente deterministico come interazione di reti neuronali agli stimoli esterni, anche se poi è costretto a “spiegare” l’intenzionalità per lui apparente del soggetto con l’estrema complessità del meccanismo: in un cartello pubblicitario elettronico migliaia di pixel che si accendono e si spengono in modo programmato danno da lontano l’impressione che i soggetti rappresentati si muovano intenzionalmente.27
Per quanto l’intenzionalità del soggetto sia considerata da Dennett illusoria, è sul suo riconoscimento che Žižek fa leva per individuare un soggetto paradossale che è “radicalmente desostanziato” come lo Spirito hegeliano e che allo stesso modo può essere posto solo retrospettivamente.28
Applicando poi il consueto filtro di Lacan, Žižek ha gioco facile a ricostruire l’ambivalenza parallattica dell’individuo, per un verso rigidamente determinato dalle sue reti neuronali – ed è questo il lato dell’ordine simbolico, secondario -, per l’altro puro vuoto di un rimosso originario che in quanto vuoto la scienza non può fisicamente intercettare, ma che le pulsioni inconsce ambiscono tuttavia a riempire di contenuti eccessivi, abnormi e scabrosi nel dominio – di fatto esclusivo – della realtà materiale.
Abbiamo insomma un uomo e l’ombra sua, per parafrasare Pirandello. 29
Žižek ribalta poi “la procedura critica tradizionale” per cui “il concetto di soggettività (autocoscienza, autonomia che si fonda da sé, ecc.)” rappresenta l’elemento che l’uomo ben integrato nel meccanismo sociale dell’ordine simbolico deve disciplinare: la parte più autentica dell’uomo è al contrario la sua ombra che, per quanto inafferrabile, “esercita influenza, causa effetti, curva lo spazio simbolico” e fa di lui un Soggetto, un individuo capace di autodeterminazione, di vera libertà, di scelta etica.30
Dati infatti i due domini, quello ordinatamente strutturato del nostro mondo (lo spazio esclusivo del Simbolico di Lacan) e quello del Vuoto originario da sempre rimosso (equivalente alla dimensione noumenica della Ding an sich di Kant), è evidente secondo Žižek che non può darsi autentica libertà in nessuno dei due prescindendo dalla interazione con l’altro: nel primo caso dovremmo sottostare come marionette ad un principio ordinatore (le categorie di Kant, le reti neuronali di Dennett), nell’altro – assunto per assurdo – sarebbe come trovarsi al cospetto della inesorabile necessità di dio, e saremmo quindi marionette a maggior ragione. Ne conclude quindi l’autore che “la nostra libertà esiste solo in uno spazio tra il fenomenico e il noumenico” ovvero nello spazio aperto dalla divaricazione parallattica tra noi come identità definite – il mio nome, ciò che io sono per gli altri -, e noi come ombre inquietanti, come faglie di emersione del rimosso originario.31
Stante però che secondo Lacan il nostro universo simbolico altro non è che sintomo, la manifestazione sul piano emerso della vita di effetti definiti che hanno la loro causa in spinte sommerse che li determinano, risulta difficile immaginare in questo schema un margine di manovra davvero libero per l’uomo. Anche in questo caso Žižek esce dal vicolo cieco sulle ali del paradosso – una delle parole più usate nell’intero saggio: “noi soggetti siamo passivamente condizionati da oggetti e motivazioni patologici; ma, in modo riflessivo, abbiamo il potere minimo di accettare (o rifiutare) di essere condizionati in questo modo; possiamo cioè determinare le cause a cui è consentito di determinarci o, almeno, la modalità di questa determinazione lineare.”32
Ciò significa che nulla possiamo contro le forze inconsce che fanno di noi quello che siamo, se non guardare dietro le quinte del teatro del mondo e dei nostri comportamenti, ammettere nelle tenebre del backstage il Vuoto che produce noi e la realtà come suo riempitivo necessario e – soprattutto – accettare con piena consapevolezza e altrettanto piena responsabilità che non potremmo essere diversi da quello che siamo: il vero atto libero si ha quando “il soggetto (della scelta) è responsabile per la situazione entro cui il suo atto particolare gli appare come inevitabile, nella modalità del “non posso fare altrimenti.”33
Il presupposto necessario per questa stravagante idea di libertà – ragiona Žižek sulla scorta di Lacan – è in fondo l’imperativo categorico di Kant, in quanto colloca dentro l’individuo il criterio della scelta etica, sganciato dal tradizionale ormeggio “dell’ontologica metafisica”, ovvero di una Legge superiore posta al di fuori del soggetto. Mentre infatti una Legge di questo genere ha il suo capostipite nell’Interdetto originario e quindi rifonda incessantemente il teatro del nostro ordine simbolico, della nostra realtà alimentando con i suoi divieti il nostro desiderio34, spostare “la legge morale dentro di me” significa innescare potenzialmente una tensione dialettica tra principio morale, misteriosamente agganciato al Nulla/Vuoto originario, e Legge costitutiva di un reale/simbolico secondario: la dialettica propriamente materialistica della parallasse, dal momento che il Vuoto non esiste se non nella controluce del reale, come sua ombra.
Se dunque “con Kant, la dipendenza da un’Interdizione prestabilita contro cui possiamo affermare la nostra libertà non è più possibile, la nostra libertà si afferma come autonoma”,35 è anche vero però secondo Žižek che né Kant, né Sade – la sua faccia nascosta e complementare, dato che un principio etico del tutto soggettivo potrebbe legittimare anche la perversione – sono riusciti del tutto a prescindere da un fondamento veritativo esterno e superiore seppure indimostrabile: Kant immagina un collegamento con la dimensione inconoscibile del Noumeno, Sade rinvia alla Natura anarchica e sempre prorompente oltre le barriere artificiali della legge.36
Di fatto quindi il Giano bifronte costituito da Kant/Sade ha avuto sì il merito di contrapporre alla Legge che tiene le fila del reale/Simbolico un principio etico profondamente radicato nell’inconscio dell’individuo, ma con il suo riferimento a un Altrove normativo universale non è stato capace di disegnare un perimetro esclusivamente materialistico della libertà del soggetto: un soggetto abissalmente libero – proprio perché indipendente da qualsiasi principio superiore – di accettare o rifiutare le regole dell’ordine simbolico che egli stesso per altro verso necessariamente produce.
In modo ancora paradossale sarà a giudizio di Žižek un filosofo-teologo, Kierkegaard, a restituire all’individuo la sua vertiginosa libertà autoreferenziale di screditare l’assetto normativo della realtà (simbolica) dall’interno della stessa realtà (simbolica).37
Infatti – ragiona l’Autore -, è pur vero che Kierkegaard risponde all’angoscia per l’assoluta mancanza di senso della realtà con la “rassegnazione infinita” di chi vi rinuncia per affidarsi -letteralmente – a un Dio/Significato, ma è altrettanto vero che lo stesso Kierkegaard connota Dio esclusivamente in negativo come l’altra faccia dell’ “incertezza della vita terrena, in cui tutto è incerto”: Qualcuno che “è precisamente presente appena l’incertezza del tutto è pensata come infinita.”38
Il Dio di Kierkegaard quindi, il Dio che affiora a riempire la mancanza di senso del reale e in nome del quale il soggetto è spinto al “sacrificio insensato” di tutto quanto caratterizza la sua vita reale (nell’ordine simbolico), ha straordinarie analogie con il Vuoto/Nulla che accoglie il reale delle apparenze come la superficie “neutra” della cornice le immagini di un dipinto. È per questa ragione che – conclude Žižek – esiste un “contenuto materialista nascosto nel sacrificio religioso di Kierkegaard, dove si rinuncia a tutto, a tutto ciò che conta realmente, per nulla.”39
Quindi la scelta etica, del tutto contingente, lascia all’individuo l’abissale libertà di accettare o rigettare – come il Kierkegaard della “rassegnazione infinita” – l’intera dimensione strutturata e strutturante del reale (simbolico) insieme alla Legge che le è coessenziale. Di fatto però – precisa Žižek – rinunciare al nostro mondo (simbolico) per la Causa/Cosa (il Dio di Kierkegaard, il Vuoto/Nulla inconscio di Lacan) comporterebbe necessariamente “la perdita di questa stessa Cosa-Causa”40, esattamente come togliere un oggetto dal sole comporta necessariamente la scomparsa della sua ombra: l’orizzonte esclusivamente materialistico nega sia i rapimenti estatici in un’altra dimensione, sia gli eccessi distruttivi e autodistruttivi di Bataille, “il filosofo della passione del Reale” originario, laddove “gli opposti coincidono.”41
Ecco dunque che la sua natura parallattica consente al soggetto di cogliere il carattere secondario e sempre mutevole della nostra realtà e di scuoterne l’assolutezza monolitica che la Legge vorrebbe garantirle, senza peraltro mai abbandonare il perimetro esclusivo della materialità della sua (e nostra) esistenza. È questa in definitiva la posta in gioco del materialismo dialettico per il soggetto: sottrarsi con piena autonomia etica alla presa di qualsiasi ordine costituito spostando continuamente il fuoco della prospettiva di osservazione dall’interno del quadro di cui egli stesso è parte al Vuoto della cornice che lo fonda. Ma qui siamo già nella sfera più propriamente politica in cui opera la parallasse, quella a cui il soggetto consapevole ed eticamente libero può opporre il “Preferirei di no” di Bartleby, lo scrivano del famoso racconto di Hermann Melville.
I would prefer not to, ovvero Bartleby il Rivoluzionario
La visione di parallasse presuppone che ogni manifestazione definita del nostro reale – oggetti, individui, idee – abbia una parte sommersa che la sostiene. Nel caso del capitalismo ormai pressoché globale, la parte emersa appare come un processo quasi magico di produzione di beni e di ricchezza potenzialmente capace di generare benessere diffuso, mentre sottotraccia è il desiderio osceno di accumulare che caratterizza il capitalista – quella che Žižek chiama “l’ingiunzione superegoica a godere” – a convertire il lavoro degli operai in plusvalore e a rilanciare la dinamica D-M-D’ (denaro- merce- più denaro).42
Secondo questa logica, inoltre, i lavoratori che sul piano storico-politico sono gli antagonisti del capitalista, ne sono sul versante nascosto i più fedeli alleati, dato che un’analoga ingiunzione superegoica a godere li trasforma fuori della fabbrica nei consumatori che permettono alla catena capitalistica di scorrere senza intoppi.43
La conclusione che sembra doversi trarre da queste considerazioni è che non esiste un correttivo agli aspetti più ingiusti del capitalismo, dato che la sua forza emancipativa si regge proprio sull’avidità del capitalista e su quella, in scala, del lavoratore, tanto che l’utopica realizzazione della dittatura del proletariato porterebbe paradossalmente ad un crollo della produttività. Un’altra ragione, più psicanalitico-lacaniana, sembra inoltre rendere ineluttabile il capitalismo insieme a tutte le sue storture sociali. Nel suo movimento incessante di processo che si alimenta da solo, esso corrisponde perfettamente al meccanismo della pulsione che spinge il soggetto a riempire il vuoto originario “del suo luogo di inscrizione” con materiali reali (simbolici) sempre nuovi perché sempre insoddisfacenti: tanto bene esso si sposa con la nostra connaturata “ingiunzione superegoica a godere”, che oggi anche la politica – ovvero il dominio delle forze regolative del nostro mondo (simbolico) attraverso il potere e la legge – ha miniaturizzato il suo raggio d’azione fino a diventare biopolitica, di fatto una post-politica volta a garantire e a disciplinare il godimento individuale.44
C’è da aggiungere – insiste Žižek nella rappresentazione di questo quadro sconfortante – che non è certo la democrazia il regime politico che meglio può contrastare il capitalismo globale sospinto dal vento delle più distruttive pulsioni inconsce. Anzi, il tipico egualitarismo democratico rappresenta una petizione di principio più adatta a sostenere la dissoluzione dell’ordine strutturato del reale (simbolico), delle sue gerarchie interne e quindi dei suoi necessari antagonismi: “è necessario un leader per scatenare l’entusiasmo per una Causa, per provocare un cambiamento radicale nella posizione soggettiva dei suoi seguaci, per “transustanziare” la loro identità”, ovvero per incarnare e mettere dinanzi ai loro occhi l’oscena verità inconscia che li costituisce e che informa il loro mondo.45
Un leader di questo genere, specchio del subconscio indicibile del suo popolo e di fatto contiguo alla figura del dittatore totalitario, mostra anche analogie stringenti con la figura dell’analista, cui lo stesso Lacan guardava come a un autentico soggetto rivoluzionario quando immaginava la costituzione di un collettivo sociale di analisti che sapessero portare allo scoperto il lato oscuro della organizzazione della nostra realtà (simbolica) e avviare così attraverso la consapevolezza il cammino verso nuovi orizzonti: progetto – registra Žižek – miseramente fallito.46
Evocando provocatoriamente la figura di un dittatore al posto di una democrazia, in cui le forze dell’inconscio colonizzano lo spazio del reale (simbolico) tanto da risultare irriconoscibili, l’autore intende porre ancora una volta l’accento sulla natura parallattica del Potere – la faccia della Legge come proiezione del desiderio inconscio di infrangerla – e sulla necessità che esso sia costituito come cardine ordinatore esplicito – il Significante-Padrone di Lacan – del mondo perché le forze pulsionali sempre insoddisfatte possano coagularsi nelle forme di un antagonismo rivoluzionario.
Anche in questa direzione però la strada sembra sbarrata, perché se il Vuoto che ci precede genera un desiderio che non può mai essere colmato, il sovvertimento di un Potere non può che ricadere in un altro Potere, e così via all’infinito, senza che il supporto fantasmatico che dal versante dell’inconscio sostiene il Potere e la sua Legge venga mai portato allo scoperto. È invece cruciale secondo Žižek che proprio questo sia il bersaglio politico, appunto perché “la Legge pubblica e il suo supplemento superegoico non sono due parti diverse dell’edificio legale, sono il medesimo “contenuto”; con un lieve spostamento della prospettiva, la Legge solenne e impersonale appare come un’oscena macchina di jouissance.”47
A dimostrazione poi del legame indissolubile tra Potere costituito sulla Legge e pratiche oscene che lo fondano, ha gioco facile l’Autore a citare i casi degli abusi commessi ad Abu Ghraib dai soldati americani, come se “i valori della democrazia, della libertà e della dignità personale” fossero per ciò stesso rivelatori del desiderio inconscio di trasgredirli, e quelli “di abuso sessuale su bambini da parte dei preti”, che Žižek rubrica icasticamente così: “la pedofilia è generata dall’istituzione cattolica del sacerdozio come sua “trasgressione intrinseca”, come suo supplemento osceno segreto.”48
L’unica strada percorribile resta alla fine quella di scalzare dalle fondamenta l’intero edificio del Potere esercitando la libertà abissale, completamente autonoma che – come si diceva sopra – un orizzonte esclusivamente materialista consente al soggetto: la libertà, certo, di riconoscere e accettare le oscure pulsioni inconsce che costituiscono per così dire il materiale di costruzione del nostro mondo e di ciò che noi stessi siamo, ma soprattutto la libertà di destituire della sua inesorabilità l’organizzazione sociale, politica, economica del reale (simbolico) semplicemente spostando la prospettiva da un’angolatura della parallasse all’altra, dal quadro del reale (simbolico) come Tutto che ingloba in una stessa logica il Potere e le forze che lo combattono, alla cornice del Vuoto originario che apre un campo non-Tutto davvero alternativo: tra capitalismo e anticapitalismo – insiste Žižek – la possibilità di una vera rivoluzione riposa sul tertium datur.
L’emblema dell’apertura di questo spazio terzo davvero rivoluzionario è il “Preferirei di no” dell’umile scrivano del racconto di Melville: “Nel suo rifiuto dell’ordine del Padrone, Bartleby non nega il predicato, ma piuttosto afferma un non-predicato: non dice che non vuole farlo; dice che preferisce (vuole) non farlo.” 49 Questa posizione, del tutto coerente – ricorda Žižek – con il giudizio infinito di Kant e con la negazione della negazione (Aufhebung) della triade hegeliana, non va confusa con il banale antagonismo, dato che negare il potere costituito vuol dire in fin dei conti riconoscerlo, accettare la logica del reale (simbolico) che esso ha egemonizzato, né con il disimpegno di chi non disturba il manovratore: si tratta al contrario di una disposizione permanente di disincanto verso il “mero teatro d’ombre” della realtà, della consapevolezza di chi dal grado zero del Vuoto originario sa che qualsiasi Potere, qualsiasi Legge, qualsiasi configurazione ordinata del reale è un non-Tutto a cui bisogna opporre sempre un “gesto formale di rifiuto in quanto tale”che è in sé autenticamente rivoluzionario.50
È Bartleby quindi il vero rivoluzionario, e siccome “il sogno di una rivoluzione senza violenza è per l’esattezza il sogno di una “rivoluzione senza rivoluzione” (Robespierre), dire I would prefer not to è il gesto più violento che si possa compiere.
Note
1 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2013, pp. 9-10.
2 Slavoj Žižek, The Parallax View, MIT Press, Cambridge 2006.
3 Ivi, p. 28.
4 Ivi, p. 14: “C’è un’intera serie di modelli di parallasse in diversi domini della teoria moderna: fisica dei quanti (dualismo onda-particella); neurobiologia (la scoperta che quando guardiamo oltre il volto, nello scheletro, non troviamo nulla, “non c’è nessuno in casa”, solo un mucchio di materia grigia (…);”. Circa la fisica dei quanti cfr. anche p. 257.
5 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, il nuovo melangolo, Genova, 2013, pagg. 40-41. Nella nota 21 di pag. 41 il riferimento bibliografico preciso all’opera di Lévi-Strauss: “C. LÈVI-STRAUSS, Esistono le organizzazioni dualiste?, in Antropologia strutturale, trad. it. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 153-183; i disegni si trovano a pagina 154.”
6 Slavoj Žižek, op. cit., p. 56
7 Ivi, p. 414.
8 Ibidem.
9 Slavoj Žižek, op. cit., p. 60.
11 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 60.
12 Ivi, p. 46.
13 Ibidem.
14 Slavoj Žižek, op. cit., pag. 47: “(…) non appena scorgiamo, attraverso la Cornice, l’Altra Dimensione, la realtà si trasforma in apparenza.”
15 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 42.
16 Ivi, pagg. 33-34: “Lungi dall’indicare una “sintesi” tra le due dimensioni, il “trascendentale” kantiano sta piuttosto per il loro scarto irriducibile “in quanto tale”: il “trascendentale” si riferisce a qualcosa all’interno di questo scarto, a una nuova dimensione che non può essere ridotta ad uno dei due termini positivi tra cui lo scarto si sta aprendo.”
17 È esplicito Žižek su questo punto: “Il limite di Kant non è il suo permanere entro i confini delle opposizioni finite, la sua incapacità di raggiungere l’Infinito, ma, al contrario, proprio la sua ricerca di un dominio trascendente oltre il regno delle opposizioni finite (ivi, p. 43).
18 Ivi, p. 35.
19 Ivi, p. 72-73, rispettivamente alle note n. 57 e n.60.
20 Ivi, pag. 72. Più esplicito il ragionamento qualche rigo sotto: “(…) il solito discorso sullo Spirito hegeliano che aliena se stesso e che poi si riconosce nell’alterità, riappropriandosi così del suo contenuto, è profondamente fuorviante: il Sé a cui lo spirito ritorna si produce nel movimento stesso di questo ritorno, o altrimenti: ciò a cui il processo di ritorno sta tornando è prodotto proprio dal processo di ritornare.”
21 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 162: “È questo il modo in cui opera la “riconciliazione” hegeliana: (…) i due momenti opposti sono “riconciliati” quando lo scarto che li separa è posto come intrinseco a uno dei termini.”
22 Ibidem: “la differenza tra essenza e apparenza è interna all’apparenza, non all’essenza.”
23 Ibidem: “lo scarto tra apparenza e realtà significa che la realtà (ciò che è dato immediatamente “là fuori”) appare come espressione di un’essenza interna, che non prendiamo più la realtà “per buona”, che sospettiamo che ci sia nella realtà “più di quel che vediamo”, e cioè che sembra esserci un’essenza da qualche parte all’interno della realtà come suo nucleo invisibile.”
24 Slavoj Žižek, op. cit., p. 56: “La tensione tra immanenza e trascendenza è così secondaria in riferimento allo scarto interno all’immanenza stessa: la “trascendenza” è un tipo di illusione prospettica, il modo in cui noi (fra)intendiamo lo scarto/dissidio che inerisce all’immanenza stessa.”
25 Si tratta del capitolo 4, intitolato “L’anello della libertà” (pp. 299-371). Gli studiosi più citati sono F. Varela, T. Metzinger, D. C. Dennett, A. Damasio.
26 Slavoj Žižek, op. cit., p. 307.
27 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., pp. 352-354. Il riferimento preciso si trova alla nota 61, p. 352: D. Dennett, L’evoluzione della libertà, trad. it. di M. Pagani, Milano, Cortina, 2004, pp. 146-163.
28 Supra, p. 4 e nota 20 corrispondente.
29 Cfr. Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, (a cura di Giovanni Macchia), vol. I, I Meridiani Mondadori, Milano, 1993 (8^ ediz.), p. 509: il titolo del capitolo XV è “Io e l’ombra mia”. Per comprendere quanto sarebbe interessante una rilettura del romanzo nella controluce di Lacan e di Žižek, si consideri la chiusa del capitolo (pp. 523-524), quando Adriano Meis, affranto per non poter condurre la vita che vorrebbe a causa della sua esclusione dall’ordine sociale (la sua identità è fittizia, egli è per il mondo quel Mattia Pascal trovato morto nella gora del mulino), fa i conti con la sua ombra proiettata sulla strada: “L’ombra di un morto: ecco la mia vita… (…) Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra e non l’ombra di una testa. Proprio così! Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa (…).”
30 Slavoj Žižek, op. cit., pp. 63-64.
31 Ivi, p. 37. Il ragionamento, di per sé convincente, è svolto da Žižek sulla scorta di Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. Di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2000, p. 293: se si potesse accedere al noumenico, “Il comportamento dell’uomo (…) si trasformerebbe, dunque, in un semplice meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutti i “gesti” sarebbero compiuti bene, ma nelle figure non si troverebbe “vita alcuna.”” (citato a p. 36).
32 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., p. 30.4
33 Ivi, p. 361 (il corsivo è sempre dell’Autore). Poco oltre Žižek accosta questo ragionamento alla “idea freudiana di decisione inconscia: (…) si tratta del paradosso di una decisione passiva, di accettare passivamente la Decisione che fonda il nostro essere come l’atto supremo di libertà – il paradosso del sommo atto libero che consiste nell’accettare che si viene scelti.”
34 Secondo Lacan – semplificando – la matrice formalmente vuota del nostro rimosso induce in noi il desiderio di riempirla con oggetti reali (dimensione esclusiva del Simbolico) sempre insoddisfacenti: l’oggetto sempre sfuggente, come la Morgana di Boiardo, che assume volta a volta panni differenti e inappropriati, è chiamato da Lacan “piccolo oggetto a” (cfr. ivi, pp. 62-63 tra le innumerevoli altre). Per l’implicazione necessaria “della Legge e della sua trasgressione” si veda la pagina 136: “la Legge origina il desiderio di “liberarsi” violandola e (…) il “peccato” è la tentazione intrinseca alla Legge; (…) quanto più rigorosamente noi obbediamo alla Legge, tanto più testimoniamo il fatto che, nel profondo di noi stessi, sentiamo la pressione del desiderio a indulgere nel peccato”.
35 Slavoj Žižek, op. cit., p. 142.
36 Slavoj Žižek, La visione di parallasse, cit., pp. 140-142.
37 Secondo Žižek “solo una linea sottile, quasi impercettibile, separa Kierkegaard dal materialismo dialettico vero e proprio.” (ivi, p. 114).
38 Ivi, p. 120: i virgolettati sono citazioni dell’Autore da S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze, Sansoni, 1972, rispettivamente pp. 304 e 305.
39 Ivi, p. 123. Per la stessa ragione l’Autore scandisce lapidario più avanti che bisogna “affermare la verità letterale dell’affermazione di Lacan secondo cui i teologi sono gli unici veri materialisti.” (p. 157)
40 Ivi, p. 122.
41 Ivi, rispettivamente pp. 144 e 143. Per un approfondimento su Bataille rinvio al mio saggio su Bataille pubblicato su Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com/2017/04/01/la-parte-maledetta-georges-bataille/).
42 A questo proposito Žižek rilancia l’obiezione posta da Lacan a Marx: l’autore del Capitale avrebbe sì compreso che il desiderio di accumulare ricchezza da parte del capitalista costituiva un ostacolo al dispiegarsi della piena produttività del capitalismo (il capitale interamente reinvestito ed equamente distribuito, con il comunismo, avrebbe evitato “crisi economiche socialmente distruttive”), ma non che “rimuovendo l’ostacolo (…) si perde proprio questa produttività che sembrava essere generata e al tempo stesso vanificata dal capitalismo.” (Slavoj Žižek, op. cit., p. 393).
43 Osserva l’Autore che “questo è forse il caso definitivo di situazione parallattica: la posizione del lavoratore-produttore e quella del consumatore dovrebbero essere affermate come irriducibili nella loro divergenza, senza privilegiarne una come “verità profonda” dell’altra.” (ivi, p, 83).
44 Slavoj Žižek, op. cit., p. 457: “Oggi non c’è tanto una politica della jouissance, quanto piuttosto la regolamentazione (amministrazione) della jouissance che è stricto sensu post-politica. La jouissance è in sé senza limiti, l’eccesso oscuro dell’innominabile, e il compito è regolare questo eccesso. Il segno più evidente del regno della biopolitica è l’ossessione per il tema dello “stress”: come evitare situazioni stressanti, come “superarle”. “Stress è il nome che diamo alla dimensione eccessiva della vita, per l’“eccessività” che deve essere tenuta sotto controllo.”
45 Slavoj Žižek, op. cit., p. 557. Quanto al dittatore che incarna la natura inconscia del suo popolo, la memoria corre istintivamente a Mussolini e al fascismo nella folgorante definizione di Piero Gobetti: “il fascismo (…) è stato l’autobiografia di una nazione.” (Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Einaudi, Torino, 2008 [1964], p. 165).
46 Ivi, p. 451.
47 Ivi, p. 490.
48 Slavoj Žižek, op. cit., pp. 537-540.
49 Ivi, p. 559.
50 Ivi, p. 564.
IL METODO DELLA PARALLASSE – KANT: IL MARE SENZA RIVA, LA BUSSOLA INAFFONDABILE, E IL PROBLEMA DELL’“IO”. Note… *
“Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (1786) è un testo decisivo dell’evoluzione del pensiero di Kant e, al contempo, dell’intero pensiero europeo. Nei temi e nei toni affiorano nodi non sciolti del passato e del presente, e segnali di tempeste del futuro, già in avvicinamento: l’inizio di una guerra di lunga durata all’illuminismo kantiano, e alla sua rivoluzione copernicana, in nome di Kant contro Kant!
Kant mostra di essere giunto ad un punto oltre al quale non può più spingersi. Ma non è questo il problema! E’ vero: i suoi stessi amici hanno frainteso (e non capito) la proposta della “terza via”; la sua risposta – pur se ferma e decisa a difendere la sua “fede razionale” e appena venata dal sentimento di una possibile carità razionale – è debole teoreticamente e, alla fin fine, moralistica praticamente. E’ vero: un dialogo pieno tra maggiorenni non c’è stato, ma non c’è stato non per motivi anagrafici o psicologici. E’ teoreticamente, e storicamente, che l’unità stessa del soggetto non c’è ancora: non è stata ancora concepita come l’unità di un soggetto maturo – a tutti i livelli. Pensare da minorenne alla maturità, da suddito alla cittadinanza democratica – ai “diritti dell’uomo e del cittadino” – non è un’impresa da … ragazzi: il “Sapere aude!” non dipende solo dal coraggio di servirsi della propria intelligenza senza la guida di nessuno. Kant lo sa (per esperienza: Federico II di Prussia non è Federico Guglielmo II) e non si ferma, né si arrende. Intorno al problema, girerà fino alla fine: la vera questione, a cui si riducono le altre (metafisica, morale, e religiosa), scrive nella Logica (1800), è quella antropologica: “che cosa è l’uomo?”.
Per Kant non ci sono dubbi – egli è e rimane incrollabilmente e assolutamente fiducioso: solo la strada critica non è un vicolo cieco (quello che imboccano – come già succedeva ai tempi di Parmenide – coloro che, per “l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente”, sono abituati a “usar l’occhio che non vede e l’udito risuona di suoni illusori”); solo “il criticismo della ragion pura” assicura alla facoltà umana della conoscenza “una duratura condizione, non solo all’esterno ma anche all’interno, di non essere bisognosa di ampliamento o di restrizione, né di esservi anche solo disposta” (I. Kant, I progressi della metafisica, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 71). Trasformare “questo sentiero in una strada maestra” (come aveva già scritto nel 1781) è possibile – e necessario: è l’unica che permette una ‘navigazione’ nel dialogo, nella nonviolenza e nella pace (I. Kant, Per la pace perpetua, 1793) e non distrugge la ‘nave’ – l’umanità e la stessa Terra.
Seguendo il filo di Aristotele, Galilei, Newton, Rousseau. egli si è spinto coraggiosamente avanti, con la sua bilancia ha trovato il modo sicuro per non perdere la speranza e la fede razionali, ma ora ha trovato dinanzi a sé di nuovo il loro stesso ostacolo: la soggettività da lui conquistata e teorizzata, presuppone (e guarda) a una soggettività che non c’è ancora – nemmeno oggi! La sua epoca è l’epoca del dispotismo e dell’Illuminismo, non è un’epoca illuminata. Kant ne è consapevole, e guarda lontano, pensa già ai cittadini e alla nuova società, a una società democratica: con la sua bussola. è sicuro, è possibile arrivare alla “terra promessa”. Nel suo caso, e ancor di più, possiamo – cosa a cui invita egli stesso, del resto! – “far valere e considerare come un passo avanti anche il non procedere”: egli, infatti, ha fornito una bussola inaffondabile per orientarsi, “un criterio atto a capire ciò che di recente è avvenuto nella metafisica (…) quanto è stato fatto per l’innanzi”, e ciò che “si sarebbe dovuto fare” (I. Kant, I progressi della metafisica, Bibliopolis, Napoli, 1977, p. 68).
Kant come Mosé: Holderlin aveva ragione. Ma già con lui, e con Fichte, Schelling, Hegel, Feuerbach, Marx, fino a Heidegger e a Lacan (che associa, “Kant e Sade”), inizia la moda di ‘giocare’ a superare Kant e a sciogliere il nodo delle antinomie della ragione, rinnovando e variando le tecniche e gli strumenti sofistici dei visionari e dei metafisici del passato. Ma l’unità e il monoteismo della ragione e del soggetto, a cui Kant guarda fisso (con il metodo della parallasse, di cui parla nei “Sogni”) non ha niente a che fare: non ha niente a che fare con la tradizione platonico-cattolica, con la loro rinnovata e camuffata vecchia unità, con la loro soggettività di un monoteismo, falso e bugiardo.
Federico La Sala (24.07.2010)
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.: – ORIENTARSI, OGGI – E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA “NAVE” DI GALILEI: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837; – FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829
Federico La Sala