Ulisse tecnologico #3
di Giuseppe Martella
3. Raggiri e rendiconti
Nell’Odissea, i canti dal VI allo VIII, sono il cuore pulsante del poema. Alla fine del V, Ulisse è scampato all’annegamento grazie al velo della ninfa Ino Leucotea (velo semitrasparente della tradizione orale, in cui le figure si leggono in palinsesto). A questo velo, o drappo misterico, che segna il limite di ciò che può essere tramandato, spuma dell’onda del divenire, aura dell’identità individuale, si aggrappa Ulisse per non annegare nell’indistinta fluidità primordiale. Poi giace stremato dalla tempesta sulla spiaggia dell’isola, mentre la mano compiacente di Atena gli sparge il dolce sonno sugli occhi. A questo sonno ristoratore del naufrago corrisponde il sogno della vergine Nausicaa, sempre ispirato dalla dea, presagio di nozze imminenti, di un cambiamento di stato che le turba il cuore. Allora ella in fretta prepara carro e cavalli e scende al mare, dove incontra Ulisse.
Dal VI all’VIII, tra la spiaggia e la reggia dell’isola, è poi tutto un susseguirsi di rivelazioni, giochi e canti, alla cui fine l’eroe prende finalmente la parola.
Ulisse narra ad Alcinoo dei sette anni di oblio nell’isola di Ogigia, presso la Ninfa Calipso, della fuga sulla zattera e del naufragio, e gli manifesta infine il proprio desiderio di tornare a Itaca. Il re gli promette il suo aiuto e perciò scendono a riva per scegliere una nave, ed è lì che si appresta un banchetto, si chiama l’aedo Demodoco e così inizia il rituale del canto che condurrà, tra un interludio di gare e l’altro, alla presa di parola di Ulisse, cioè allo scambio delle parti dell’eroe e del narratore, che è fulcro del poema. Tale scambio rituale non è di natura sostanzialmente diversa dagli altri marchingegni di Ulisse e, per quanto speciale, esso rimane tuttavia in carattere con l’occasione cerimoniale e col multiforme ingegno dell’eroe. Per quanto decisiva, cioè, questa svolta nel poema è nelle corde dell’eroe, fa parte della sua capacità di imprimere svolte all’azione e al discorso (polytropia). Noi l’abbiamo intesa in modo forse riduttivo come “multiforme ingegno” o addirittura astuzia.
Ma la curvatura della sua mente è anche la curvatura dello spazio culturale pre-euclideo dell’epoca sua: nessuna trasmissione univoca del sapere ma un reticolo di storie, narrate qua e là, che si intrecciano a rizoma, si curvano sotto il peso delle potenze di turno, delle egemonie locali, del prestigio dei singoli, uomini di azione e di parola, capitani e menestrelli. Re, sacerdoti e cantastorie. E’ curvo e dedaleo, questo spazio, come la geografia culturale cretese-micenea che trova appunto nel labirinto il suo simbolo centrale. E al suo centro il mostro dell’inconscio si fa incontro all’eroe fondatore di città (Teseo, Perseo, Cadmo). Il filo di Arianna che salva Teseo, concedendogli la vittoria e il ritorno, è anch’esso un marchingegno che preannuncia il filo del racconto che tiene la rotta e cuce l’identità di Ulisse, tra mille peripezie e trasformazioni. E’ lo stesso filo con cui è tessuta la tela di Penelope, ascoltatrice attenta, paziente e fedele, mente pari a quella dell’eroe-cantore, che s/cuce giorno per giorno, seleziona, taglia e incolla, pezzi del folklore greco arcaico, come fa Odisseo-Omero, e li fissa in un ordito scritto, in un intreccio debole e multiplo, e tuttavia uno: le vicende degli eroi di Troia, le avventure di Ulisse a spasso nel mediterraneo, la geografia fisico-politica greca, l’insieme di storie circolanti, la ghirlanda dei miti narrati da mille cantastorie. La curvatura della mente-memoria di Ulisse, la sua topologia, coi suoi spazi e soglie di catastrofe, è l’orizzonte di senso, la matrice, entro cui si delinea il nuovo regime di trasmissione culturale, la mappa geo-politica della Grecia classica – nell’orizzonte di transizione tra parola e scrittura.
La polytropia di Odisseo, ovvero la capacità di porre in essere o subire le svolte del caso, non è semplice astuzia del personaggio, “l’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi”. (Horkheimer e Adorno 1980: 56) Ma è anche la perizia del narratore in grado di prefigurare lo spazio di quella nuova “finzione” che sarà la coscienza letteraria greca e occidentale. E’ una piega che apparenta la inveterata inclinazione alla menzogna di Ulisse alla funzione sociale della fiction, a partire dalla omerica capacità di reinvenzione e trasposizione letteraria del retaggio mitico orale.
Per caratterizzare l’eroe è dunque preferibile il termine ‘raggiro’ che racchiude quelli di astuzia, inganno e rivolgimento (tropé), come istanza della coscienza rammemorante-narrante che prende forma nel carattere di Odisseo: il cui riverbero si avvertirà in tutti gli stratagemmi narrativo-speculativi della moderna coscienza letteraria borghese fin dai suoi albori. Nel senso preciso del raggiro che coinvolge uomo e dio, vittima e sacerdote, nel sacrificio fondatore di una identità individuale e collettiva, è vero allora che l’astuzia ha origine dal culto e ne costituisce la quintessenza, proprio come finzione-tramite tra la coscienza del servo e quella del signore, raggiro che coinvolge vittima e artefice, personaggio e regista del sacrificio. Ma tale raggiro è anche la circolazione rituale delle parti nella fiction, effetto di trasposizione del più fondamentale dei meccanismi, quello dello scambio dei funtivi nel rito sacrificale che consente la legittimazione “sacerdotale dell’assassinio mercé l’apoteosi dell’eletto”. Qui sta il nesso intrinseco tra sacrificio e teofania, immolazione della vittima e manifestazione del dio. Il raggiro va dunque anzitutto inteso come stratagemma tecno-logico per la delimitazione del sacro, per la istituzione della norma nella comunità e del senso nella storia, cioè per la fondazione dell’intero ordine del rito-mito-racconto. La sua traccia si continua a scorgere ancora nel gesto imperioso, nello sguardo incantatore, nella voce suadente dell’Antico Marinaio di Coleridge e di ogni cantastorie nato, che delimita la cerchia dell’ascolto e in cui si perpetua la primitiva vocazione al sacrificio di sé (in quanto eroe cultuale e culturale) in vista della purificazione e immunizzazione della propria comunità dall’antagonismo delle passioni in eccesso. In questo scambio di parti l’irrazionalità del sacrificio e l’astuzia della ragione in fondo coincidono nella funzione comune di mantenere una coesione salvifica, per quanto illusoria e provvisoria, della comunità arcaica. E’ questo il raggiro fondatore che è il motore del rito/mito.