Il Fauno da Mallarmé a Debussy e a Ungaretti
di Antonio Sparzani
Je t’adore, fureur de femmes, ô délice
farouche de ce blanc fardeau nu qui se glisse
sous mes lèvres de feu fumant……
Mallarmé mi affascina perché è oscuro, non ho mai l’impressione di capirlo fino in fondo, ma ci torno continuamente (ad esempio qui, qui e qui).
Étienne Mallarmé detto Stéphane Mallarmé (Parigi 1842 – Valvins 1898) scrive a ventitrè anni, nel 1865, la prima versione del suo poema sul fauno, il Monologue d’un faune. Il suo maestro allora è Théodore de Banville e Mallarmé è convinto di riuscire, tramite i suoi buoni uffici, a far rappresentare il suo Monologue al Théâtre Français; questa operazione non riesce. Così scrive il nostro a Théodire Aubanel: «I versi del mio Fauno sono piaciuti immensamente ma Banville e Coquelin non vi hanno rinvenuto l’intreccio che il pubblico richiede e mi hanno assicurato che tutto questo non può interessare che i poeti. Abbandonerò dunque il mio soggetto in un cassetto per qualche mese per rifarlo più liberamente in seguito». Si dedica nel periodo successivo a Hérodiade, lungo poemetto che molto l’appassiona.
La storia successiva del Faune comprende una versione intermedia, l’Improvisation d’un Faune, e infine la versione definitiva del 1876, l’Après-midi d’un Faune, forse la più nota, la più curata, come quella nella quale il linguaggio è già stato in qualche modo sublimato, il simbolismo ha già la meglio sul parnassianesimo del primo Mallarmé.
Ma, mentre il testo dell’Après-midi è più conosciuto – lo si trova ad esempio nelle varie antologie, oltre che qui – vorrei farvi conoscere il testo del Monologue, scritto da un Mallarmé di giovane e prorompente vitalità. Non stento a credere che sia stato rifiutato come Atto unico teatrale, in realtà non c’è trama, non c’è storia, c’è il puro inimitabile gusto della parola – come poi sempre anche nel Mallarmé più maturo – che crea continuamente nuove immagini e nuovi colori, tra il sensuale e il sognante, seguendo un filo in ogni momento imprevedibile, quel gusto che si affinerà più tardi negli Arabesques.
Un testo a cui cedere subito, insomma, a cui abbandonarsi senza cercare nulla di definito.
Ve lo presento qui attraverso le pagine di un famoso volumetto (Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo – traduzioni II – da Gòngora e da Mallarmé) edito da Mondadori nella collezione Lo Specchio nel 1948, che fortunatamente ancora trovai, giovane liceale, alla fine degli anni cinquanta e di cui oggi posso quindi fare una scansione per voi. Se cliccate su ogni pagina vi apparirà più grande e molto leggibile.
La traduzione di Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888 – Milano 1970) è, come tutta la sua poesia, ricca, pastosa, piena di vitalità trattenuta e trovo che molto si adatti a questo testo.
Scrive egli nelle note iniziali al volume dello Specchio: «Dal rifacimento da parte di Alessandro Parronchi della sua [traduzione] dell’Après-midi, in eccellente modo, e dalla sua recente del Monologue, perfetta, e da tentativi di traduzioni libere fatte prima e successivamente, mi sono convinto che cercare la verità fuori della lettera, è fatica sprecata.»
Mallarmé scrisse anche delle Offrandes, delle dediche alle persone cui offriva una copia del Faune. A Claude Debussy scrisse questo:
Sylvain d’haleine première
si ta flûte a réussi
Ouïs toute la lumière
qu’y soufflera Debussy.
E Debussy, di vent’anni più giovane di Mallarmé, dal 1892 al 1894 musicò l’Après-midi – col titolo Prélude à l’après-midi d’un faune – che fu per la prima volta eseguito alla Société Nationale il 22 dicembre del ’94. Mallarmé commentò: «Non mi aspettavo una cosa simile! Questa musica prolunga l’emozione del mio poema e ne situa lo scenario più appassionatamente del colore»
Questa è la prima parte, e questa la seconda, di una celebre esecuzione di Leopold Stokowski (il prélude di Debussy era un suo pezzo favorito) con la London Symphony Orchestra alla Royal Festival Hall, London, 14 giugno 1972, Stokowski celebrava i suoi novant’anni e la LSO celebrava i suoi sessanta. Stokowski dirigeva senza bacchetta.
Mon crime fut d’avoir, sans épuiser ces peurs
Malignes, divisé la touffe échevelée
De baisers que les dieux avaient si bien mêlés…
L’Après-midi divenne nel 1912 un balletto per opera di Vaclav Nižinskij (qui in un disegno di Léon Bakst) con lo stesso Nižinskij nella parte del fauno, ed eseguito per la prima volta a Parigi il 29 maggio 1912. Qui nello stesso balletto con la sorella Bronislava Nižinskaja.
Molto interssante, caro Anton. Anch’io sono affascinato da Mallarmé, e seguo il filo che lo collegava a Rimbaud, benché gli stili fossero diversi. E Théodore de Banville, il “secondo romantico”, un “veggente”, che corrispondenti che aveva. Oltre a Mallarmé, il 24 maggio 1870 Rimbaud diciassettenne gli scriveva: “Caro Maestro”… con allegati versi che sognava di vedere pubblicati tra i parnassiani, proprio come Mallarmé.
Ti segnalo due errori di battuta, all’inizio del pezzo: 1965 e 1976.
grazie, Mauro, corretto. Sì, direi che Rimbaud segue un percorso più tempestoso, pur condividendo alcuni maestri.
Mauro, Rimbaud si liberò presto d’ogni soggezione nei confronti di Banville. Poco dopo la lettera che citi, gli inviò la sublimemente provocatoria poesia CIO’ CHE SI DICE AL POETA A PROPOSITO DI FIORI, e poi quando ebbe modo d’incontrarlo di persona a Parigi gli domandò se non fosse giunta l’ora d’abolire l’alessandrino. Quando poi Banville domandò a Rimbaud perché nel Battello ebbro non avesse cominciato con “io sono come un battello” eccetera, Rimbaud biascicò qualcosa tipo: “vecchio coglione!” Direi che l’unico predecessore cui l’adolescente abbia riconosciuto una reale autorità sia stato Baudelaire, del quale tuttavia scrisse che, essendo cresciuto in un ambiente “troppo artista”, la forma da lui usata era “sciocca”. Insomma, Rimbaud non riusciva a tollerare nessun padre letterario (e non soltanto). Diverso, come hai detto, il percorso di Mallarmé. Entrambi sono pietre miliari nella lirica moderna: s’incontrarono una sola volta a casa Mallarmé, e il ricordo che Mallarmé ne ha tracciato nel 1896 (cinque anni dopo la morte di Rimbaud) è straordinariamente suggestivo.
Grazie a te, Sparz per il dono.
Mi sembra un testo antico, nutrito della cultura latina,
con impronta mitica d’Ovide.
Rimbaud era più rivoluzionario, ha fatto esplodere un sole poetico,
ha liberato tutte le navi ancorati al porto, ha fatto danzare una lingua nuova,
come lingua straniera, dove si ascolta “le tambour des sables”, lingua soprannaturale.
Mallarmé ha la lingua sacra del dolore antica, come un liquore misterioso,
enigmatica, lettere di bellezza e sortilegio, qualcosa che non è la trance, ma la preghiera
segreta.
Lydia Nelidova e Vaslav Nijinski e il suo famoso passo del fauno di profilo
Però se devo dirla tutta, questo fauno di Mallarmé, fra le sue opere, non lo trovo poi così oscuro, anzi trovo abbia una sua vaga pesantezza intrinseca e non mi ha mai troppo affascinato né per mistero, né per leggerezza. Il guaio è, forse, leggerlo con o dopo Debussy, ecco, direi che la sua funzione principale fu di ispirare a Debussy un capolavoro assoluto, che lo supera tra flauto e archi e arpa e corni, per atmosfere, dolcezza e sogno, desiderio e eros sublimati.
,\\’
Enrico, sono d’accordo, in gran parte. Diciamo che Rimbaud leggeva con accanimento (e rapidità, com’era nella sua natura), gli autori che lo interessavano, poi li copiava, li mimava, li riscriveva, e li superava. Spesso, come dici, li ricopriva pure di sarcasmo. Ma l’influenza di Victor Hugo, per esempio, è stata enorme, anche se lo critica; e anche di Baudelaire, che come scrivi, nella Lettera del Veggente, definisce troppo artista. Banville, voleva fare colpo su di lui, per farsi pubblicare dalla sua rivista parnassiana, e nella lettera che ho citato gli mentiva sull’età, infatti non aveva 17 anni, ma non ancora 16, e sono convinto che l’ode antiparnassiana di “Ciò che si dice…” che hai giustamente citato sia stata per così dire generata dalla non risposta di Banville.
Cioè, preciso meglio un punto: “Ciò che si dice…” è stata scritta, forse, circa un anno dopo la lettera del 24 maggio, e subito dopo la Lettera del veggente, dove R. invocava un nuovo stile, una nuova lingua; questa poesia sembra il primo tentativo di mettere in pratica la ricerca del Veggente. Poi la invia a Banville, il padre dei parnassiani, prima di andare per la quarta volta credo, a Parigi, in cerca di appoggi; il fatto che si rivolga proprio a Banville per un rimbaldologo acuto come Ivos Margoni starebbe a dimostrare la sua fiducia, nonostante tutto (e nonostante la frase che hai citato), nell’intelligenza di Banville (secondo me ben riposta, visto che il suddetto lo ospitò quando era solo e disperato). Lo credo anch’io, però nulla mi toglie il pensiero che la scintilla di questa rivolta antiparnassiana sia stata provocata anche dal rifiuto iniziale di pubblicarlo sulla rivista…
Però l’autenticità di quel video di Nijinski è molto dubbia… Dovrebbe essere un’animazione, basata su foto d’epoca.
Vero Mauro, ricostruzione perfetta. Vera e innegabile anche l’influenza di Hugo e Baudelaire su Rimbaud. Ma secondo me, con certi passi di UNA STAGIONE ALL’INFERNO e con l’intero corpus delle ILLUMINAZIONI, siamo davanti a qualcosa di realmente nuovo; Rimbaud ha salito un gradino di colpo, quasi contro le leggi “fisiche” della poesia, delle influenze fra autori, dei fraintendimenti creativi di cui la letteratura si nutre da sempre. Infatti ciò che maggiormente colpisce di questo prodigio non è tanto la precocità, quanto la velocità. Nessuno mai più veloce di lui.