Quaderno di fabbrica
di Nadia Agustoni
Comincio a salvare alcuni frammenti, schegge di una memoria lenta, ma insolitamente leggera. La sua non densità la trovo in questo darsi a pezzetti e rimangiarsi subito quello con cui mi investe, con cui mi rompe i pensieri uno alla volta per farli tornare indietro, più o meno come un nastro di pellicola riavvolto. Ascolto una canzone dei 70, il foglio è bianco, c’è un pausa che è paura, spavento e non so se il tempo cambi marcia di colpo o se non sento che qualcosa scappa via dalle parole, non si lascia dire.
Un racconto sulla fabbrica diventerebbe lo spazio di immagini che trascrivendo l’esperienza la fermano. In quel fermarla verrebbe tradita. Il raccontare la fabbrica senza racconto implica trascrivere lo spazio disciplinato che racchiude e la sua inesorabilità senza speranza. Una vita può essere poesia che si compone nel ferro, nei ritmi sovrumani, nella discarica di tempo che non lascia traccia. Oppure può diventare un’eternità di parole che non si scrivono, che cedono e si urtano o rimbalzano in un groviglio.
C’è una calma barbarica negli stabilimenti ed è dovuta al loro essere luoghi che non cambiano. Luoghi senza mutazione. La loro geografia è stabile. Un accumulo rimasto sul terreno, uguale a se stesso. Anche la corruzione del tempo non li cambia. Lascia intatto l’essenziale: quel senso di perdita e di pesantezza, una gravità diversa. Se qualcuno provasse a descrivere una fabbrica come un non-luogo, forse sbaglierebbe. Forse, e dico forse, questi sono i luoghi per eccellenza. Solidi e piantati nella mente prima che nel paesaggio. Una fabbrica costruisce i corpi che la abitano e rimane costruzione anche quando è in disuso. E’ costruita per precedere il tempo e crea una dissonanza che la lingua non può trovare e quindi di fatto pone la difficoltà di dire che cos’è la sua stessa materialità.
Entrai in fabbrica a sedici anni. La prima sensazione, constatata poi in altre/i, fu di qualcosa che andava perso. Nessuno/a di noi avrebbe saputo dire cosa. A distanza di 25 anni potrei dire che andava perduta, o così la vedo ora, una qualità dell’umano: la tenerezza. La caratteristica del luogo-fabbrica è nella mia esperienza questa impossibilità di tenerezza. La devastazione muscolare o se preferiamo dorsale non è nulla a paragone di questo indurimento. Quel che si solidifica dentro l’individuo è fabbrica. Diventiamo una parte dell’assemblaggio. Macchine non-macchine che hanno ancora la capacità dell’urlo, il senso della meno-misura umana con cui si viene trattati e circoscritti. La parola, in fabbrica, è sacra. Indica lo spazio non sacrificale. Il limite dell’agnello immolato. Se volete capire di più entrate in un allevamento di animali (polli o altro) e seguite le operazioni dalla nascita, o anche prima, fino alla fine. Quel loro essere totalmente corpi-materia circoscritti è la loro mancanza di parola. Noi abbiamo la parola, ma in un silenzio duro da sciogliere. Abbiamo parole più crude della nudità perché non riempiono tutta l’esperienza. Abbiamo anche corpi che a volte superano le macchine in una prova durissima che è una sfida ogni giorno. Cyborg pensanti, come li ho chiamati altrove, rincorriamo l’esistente e ne siamo più o meno sconfitti. L’universo di un Phillip Dick potrebbe benissimo essere nostro e lo è soprattutto nella misura dell’ironia e del clownesco, che inevitabilmente suscita, con i suoi gironi infernali in cui ogni incontro è una porta sul quasi nulla. Il solo motivo per cui la poesia è necessaria in un posto-fabbrica è perchè tiene vivo il ricordo di quanta assurdità bisogna sopportare per sopravvivere. Senza l’assurdo e senza toccare la linea di una mancanza mai interamente definibile, sfugge quel perimetro percepibile, ma non visibile, proprio intorno alla solidità del posto inteso come spazio del e di lavoro. E’ in questo modo che le sue narrazioni ( di gente, di paesi, di migrazioni ecc.) diventano facilmente storie in cui c’è una trama ma non la materia prima, il luogo-fabbrica. Narrare questo luogo è circoscriverlo. L’unica rivincita.
Lavoro dell’alba, shock mattutino
l’aspettare, tenere l’attesa che è acino maturo,
confondersi al quadrare dell’ora
far su le cose con gesto grezzo e grande
che t’impari quel che è creato
t’impari un sonetto di silenzi
prima del rumore delle ferramenta
che esplodono quando ti maciulla il costato l’ingranaggio
e tu sei arnese che pensa e non pensa ch’è presto ancora
e tardi farai anche alla tua veglia
che hai un sonno vivo
un sonno di redenzioni e d’innocenza
dove ti tocca nascere
ma nasci appena un po’ e bambina
che avrà neanche parola neanche l’asciugarsi del pianto
né un angelo infermo che si biasima.
La parola “fabbrica” nel leggere questo articolo, mi sembra diventata anomala, quasi fossile vivente. A ricordarmela è stato, poco tempo fa, il film Mio fratello è figlio unico.
UN’OSSERVAZIONE SULLA PRESENTE PAGINA WEB DI NI:
Ci sono 14 articoli postati, andando da Marco Rovelli ad Andrea Inglese, e metà sono scritti da autori non di NI: crisi di ispirazione degli Indiani?
Spero di no.
‘In quel fermarla verrebbe tradita.’
verrebbe da chiedere, e chiedere tanto
ma la poesia narra il luogo, lo circoscrive
spiega ciò che non si può fermare…
Apertura verso il mondo? Desiderio di evitare la mafietta autocelebrativa? Volontà di dare spazio a chi lo chiede? Tu che dici, Lorenzo? ;-)
Gianni, la mafietta autocelebrativa è cosa che, se c’è, si vede solo nei commenti, a mio parere (a volte l’ho vista, ma non spesso, e non la chiamerei mafietta), dato che non vedrei niente di mafietto né di autocelebrativo in articoli tutti “autografi”.
Sul fatto dell’apertura al mondo e del dare spazio a chi lo chiede prendo la palla al balzo: se ho qualcosa di (secondo me) interessante posso mandarlo a te? io provo, eh? :-))
Ma non vorrei depistare i commenti sul post, quindi mi fermo qui con queste considerazioni.
Lorenz
Non si fugge da ‘alla macchina.’
Complimenti, si sentono le viti cadere.
A.