Il tuffatore

di Jacopo La Forgia

Procul recedant somnia,

Et noctium phantasmata

Cara Alice,

 

oggi è il 7 ottobre e sono seduto in un bar di Venezia. Davanti a me ho il ponte dell’Accademia. L’ultima ora l’ho trascorsa a pensare al prisma che hai tatuato sull’avambraccio. Ricordo molto bene quanto fosse spesso l’inchiostro nero dei contorni. La forma del disegno, invece, non la riesco più a evocare. Ho sforzato la memoria a lungo perché ne ricomponesse l’immagine, ma mi sfugge.

Io e Eric, il 19 aprile dell’anno scorso, ci siamo dati appuntamento davanti all’ultima casa che esce dalle periferie del villaggio di Tatopani. Mi viene incontro per salutarmi, è l’alba, e inciampa su un gradino. Intanto mi guarda, come a chiedermi “tutto bene là dentro?”. Quel gradino è tagliato nel cemento. Com’è stato portato fino a qui, il cemento? Nei sacchi da 50 chili che i porter trascinano su e giù per le montagne o nel rimorchio di un camion, sulla grande strada che i cinesi stanno battendo per collegare il Tibet e il Nepal attraverso l’Himalaya? Io all’asfalto preferisco lo sterrato, per i problemi che ho alle ginocchia e per la fatica che faccio a camminare su superfici troppo dure.

Credo che il gradino qui dell’inciampo sia lo stesso delle scale che saltavo per entrare nell’androne del tuo palazzo su via ***, Alice. Mi guardo i piedi che uso per camminare: indosso le scarpe da lavoro con la punta d’acciaio che ho comprato in Australia tre mesi fa.

La solidità delle case basse intorno a noi grava sulle fondamenta in cemento e sulle porte di legno come le schiene delle donne gravano sulle articolazioni delle loro ginocchia. Impugnano delle scope in vimini, e dai loro piedi con le unghie sporche, nelle ciabatte di plastica blu, torno alle mie gambe doloranti che sorreggono la schiena, dritta, la parte del mio corpo che preferisco.

Mentre la temperatura si addensa nelle teiere che vediamo in ogni casa, dappertutto, le gambe scaldano il mio corpo passo contro passo. Le mie mani sono ancora fredde: eppure, sull’ergonomia in plastica dei bastoni da trekking trovo immediatamente aggrappi tenaci, con la stessa sensibilità e destrezza con cui afferravo il tuo corpo dalla vagina per strattonarlo e portarlo verso di me, attraverso le porte che vengono spalancate il mattino per far uscire le persone che affollano le strade. Strade anguste, le voci non si distinguono, la lingua è sconosciuta; gorgoglii, gli esseri umani polverosi, e l’odore della loro pelle m’invade, disturbandomi. Ho le articolazioni dolenti perché sono appena entrato nel giorno. Occupo lo spazio in modo sgraziato, impegno le prime energie tentando di assestarmi sul movimento che mi risparmi dalla fatica; m’illudo di poter imparare dai nepalesi, che si orientano piano e con grazia, che abitano le increspature dello spazio sapendone le giustizie, le fenditure e i ruoli. Ricordo la tua sensibilità per l’estensione delle cose più brevi.

I vicoli costringono verso la strada principale l’acqua che esce da sotto le case, da sotto le porte; la strada spezza il paese in due come la valle spezza le montagne, e in ogni spazio roteano gli occhi, alcuni bisbigliano e altri gridano.

Uova, pane e frutta; io ho il voltastomaco perché ho mangiato del formaggio di yak. I nepalesi si raschiano la gola e sputano violentemente a terra; ne vedo alcuni che troncano la testa di un pollo, là dietro, e poi bagnano la terra con l’acqua sporca e il sapone. La mia maglietta è ancora intrisa del sudore di giorni passati e gli odori che l’aria mi caccia nel naso mi fanno senso. Anche i bambini ora mangiano delle cose, molti si voltano a guardarci, una luce transita e m’illumina le mani con cui ho tirato dei soldi fuori dalla tasca, mi accarezzo i miei calli con le monete e guardo come le nuvole contrastano i numeri con il metallo. I soldi che dovrei a Eric per la partita a carte che ho perso ieri sera, e i cani che si rincorrono e abbaiano, in lotta tra loro, non mi possono far dimenticare così a lungo il tuo incostante timbro di voce, Alice. E non sarebbe proprio il caso che pensassi a te, ora.

Eric mi fa notare come la pioggia della sera prima abbia irrigidito l’aria, districando le polveri che vengono dall’India, rendendo l’atmosfera più pulita e la distanza più visibile; m’indica la cascata di ghiaia, oltre la fitta tesa di giungla che fino a poco fa si era palesata, immobile, alla fine di un occhio, e che adesso si muove, si espande e si contrae.

Oramai siamo fuori dal villaggio, ed Eric ha un naso grande e a caduta, i denti che masticano del tabacco, zigomi con la barba e un tatuaggio sul polso. Le mani, libere, finiscono con dita dritte, cilindriche, e dondolano parallele ai fianchi: aiutano il passo, composto, la presa decisa sulla direzione, e quando sentiamo il rumore del fiume mi sporgo sul burrone al lato della strada per contarne le rocce che ne dividono i flutti: si separano e s’incontrano, senza tregua.

Sono le cinque del mattino, Eric ha legato il suo zaino alla schiena, e c’è bisogno che io allacci meglio le scarpe perché piegarsi è una fatica.

Prendiamo la prima curva a destra e le cime che abbiamo allontanato con estrema lentezza nei giorni passati, come in un lunghissimo saluto a mano aperta e con le dita tese come ti ho salutato io l’ultima volta, un anno fa, e tu mi hai dato le spalle e si cammina piano, sai, per l’altitudine. Le cime, dicevo, si dileguano alle nostre spalle, per riapparire in seguito, quando svoltiamo di nuovo a sinistra, ma più lontane.

Gli occhi sono allenati alla distanza. Ciò non impedisce, per fortuna, che le cime e i ghiacci più tenaci incidano a fondo, ancora una volta, la mattina presto, sul nostro ricordo delle nostre montagne. A me incidono sul ricordo tuo, per la verità, perché nel punto in cui finiscono tutti questi corpi di cui ti sto scrivendo spero ogni volta che ricominci il tuo, ma questo non accade mai; io non riesco ad arrendermi, ma non lo trovo più, non lo vedo più, non lo riesco più a rievocare, com’era fatto quando mi dormiva accanto o mi camminava vicino.

Le prime volte che abbiamo camminato insieme pensavo fossi goffa, ma bastava poco tempo per rendermi conto che sbagliavo: tu inciampi nello spazio perché non lo occupi ma lo scopri; ti spaventa, sì, lo spazio straniero, ma lo indaghi e non demordi, componi una lotta indefettibile contro questo spazio che ti stupisce, di cui non concepisci la regolarità perché ne cogli ogni differenza; io invece, tutto teso a tentare un movimento fluido, come se il mio spazio già lo conoscessi tutto, mentre lo ignoro, e voglio saltare alla fine del percorso per evitarne le tortuosità, sempre cedo, sempre crollo, sto sempre a terra, non sono ancora capace…

Incidono, dicevo, il tuo corpo e queste cime, sul ricordo delle mie montagne, a Nord, che sono un italiano; e probabilmente incidono anche sul ricordo delle sue, di Eric, che è un quebechiano, anche se non so a quali montagne si riferiscano le sue nostalgie, ancora non gliel’ho chiesto. Le montagne dove abbiamo camminato fin da ragazzini, e ognuno sta con il possesso delle proprie cime e dei propri fardelli e con la fallace consapevolezza del proprio corpo e del tuo mentre la strada s’inerpica, si stringe, attraversa un breve e stretto ponte. Rivolgiamo la testa verso il basso per intravedere l’incessante e violento movimento dell’acqua, e l’acqua mi ricorda che è il momento che la strada c’insegni la giungla, penetrandovi dentro, scavalcando le radici spesse che emergono dal terriccio scuro.

Oggi cammineremo fino a sera, visti i 1600 metri di dislivello della tappa. All’inizio, la latitudine del Nepal, che è la stessa dell’Egitto, ci impone un’umidità pesantissima. Ci fermiamo spesso per bere l’acqua che abbiamo purificato e raccolto nelle borracce. Siamo in aprile e il monsone si sta avvicinando. Sanguisughe allignano tra gli arbusti e, dopo aver cavalcato le foglie che crollano dagli alberi, s’infilano repentine negli scarponi a trangugiare la pelle delle caviglie.

Verso le undici del mattino comincia a piovere; poi, intorno alle undici e mezzo, inizia a piovere fortissimo. Facciamo fatica ad avanzare, il sentiero è ripido e noi scivoliamo nel fango. Decidiamo di fermarci: troviamo riparo accanto a una parete di roccia inclinata, a ridosso del sentiero, e ci sediamo sul terriccio umido.

La sera prima Eric indossava una felpa, così il tatuaggio che ha sull’avambraccio sinistro l’ho notato solo oggi. È una lunga e sottile linea nera, che parte dall’incavo del gomito e finisce dove inizia il palmo.

– Che cos’è quel tatuaggio, Eric?–

– È…–

S’interrompe.

– Perché una linea? Che cosa significa? –, lo incalzo io.

– Non lo so –, mi risponde, e mi fissa. Attende che io chieda ancora.

– Scusa, com’è possibile che non lo sai?–

Ci fermiamo per un attimo, beviamo del caffè. Mi continua a fissare e io sostengo il suo sguardo.

 

***

 

È l’aprile dell’altr’anno quando sono sull’Himalaya; e cammino, cammino.

Cammino tra le montagne che circondano e incastrano la vetta più alta del massiccio dell’Annapurna, il primo ottomila scalato dall’uomo, e con il K2 il più pericoloso, per il rapporto tra morti e tentate ascensioni. Sono nel nord-ovest del Nepal e cammino da una trentina di giorni. Gli ultimi quattro, la lunga e lentissima discesa dal passo di Thorung La, 5400 metri di altitudine, fino a Tatopani, una piccola località termale, molto più in basso, a 1200 metri.

I primi chilometri neve, moltissima neve, poi incontro pellegrini buddisti, e attraverso una moltitudine di piccoli villaggi. Scure facce nepalesi, monasteri, risaie. La strada mi conduce dai picchi del desertico Mustang a una giungla densissima. Mi fanno molto male i ginocchi.

A Tatopani ci arrivo il 15 Aprile, e decido di fermarmi lì per qualche tempo, per far riposare le gambe e i polmoni stressati dall’altitudine. La tappa successiva mi avrebbe portato di nuovo su, a 2600 metri: alla macchina del mio corpo concedo qualche giornata di riposo, prima di impegnarla nella nuova parte del viaggio.

Il quarto giorno che sono a Tatopani incontro Eric, un ragazzo franco-canadese che ha ventiquattro anni, fa il fisioterapista e fino a un po’ di tempo fa viveva e lavorava a Montreal. Entrambi stiamo viaggiando in solitaria, quindi decidiamo di affrontare la tappa successiva insieme. Finiamo la partita a carte e il tè, e andiamo a dormire.

 

***

 

Siamo seduti sotto la roccia; con il rumore, e le narici che filtrano: la violenza della pioggia mi mette a mio agio con le mie piccole angosce (sono lontano, e solo), e posso ascoltare la storia di Eric,

–… che è una storia strana –, attacca lui.

– Saranno otto mesi, ormai, che non bevo un caffè come si deve, e non accenna a smettere di piovere. Hai tutto il tempo di proseguire e raccontarmi tutto –, gli rispondo io.

Ha cacciato fuori una moka dal suo borsone e ci ha fatto un caffè che mi ha servito in un piccolo bicchiere d’acciaio.

– L’altr’anno. Ho trascorso cinque mesi su una nave da crociera, in Sud America, a lavorare a tempo pieno come uno schiavo, a massaggiare sconosciuti per mettere da parte i soldi con cui pagarmi questo viaggio.–

– Sì, me l’hai già detto ieri sera.–

– Beh, le cose non è che andassero come mi ero immaginato prima di imbarcarmi. Pensavo sarebbe andata più liscia. Invece lavoravo moltissimo, e quando la sera smettevo, attaccavo a bere e continuavo fino a crollare per terra. Solo, senza essere riuscito a fare amicizia con nessun membro dell’equipaggio. Poco tempo in mare ed ero già stremato e incazzato nero.

La notte uscivo in coperta e passeggiavo avanti e indietro per tutte le decine e decine di metri di lunghezza della nave.

Mi fermavo a guardare il mare nero, illuminato dalle stelle, dalla luna.

Progettavo di rubare una scialuppa di salvataggio e tornare a terra, fuggire per sempre da tutta quella noia. Oppure sognavo, appoggiato al parapetto con la testa penzoloni, di scavalcare e gettarmi in un lungo tuffo, affondare in quell’abisso per qualche minuto per farmi passare la sbronza e poi una lunghissima nuotata fino a terra. Fantasie in cui mi cullavo la sera, ogni sera. Una lunghissima nuotata verso il Sud America…

Insomma, a salvarmi dagli abissi è stata una ragazza che si è imbarcata in Uruguay. Era con due amici che si stavano facendo un lungo giro del continente. Una piccola ragazza giapponese della mia età, Misato. Delicata…–

Eric è un ragazzo massiccio ed è molto miope. I suoi occhiali sono spessi.

I tuoi lo erano, Alice? Tra le mie figurazioni interiori del tuo passato miope, di cui ho goduto appena, per pochi minuti, quando ti ho visto la prima volta, che eri seduta a terra, non ce n’è nemmeno una che riguardi lo spessore dei tuoi occhiali.

Avevi vent’anni, nella mia città; è stato solo per un attimo, trac, con la voce irregolare e nervosa. Non mi sono presentato perché litigavi con un uomo.

Quando ti ho incontrato nuovamente, anni dopo, t’ho approcciato dicendoti che t’avevo riconosciuta, e tu mi hai detto che eri stata da poco operata agli occhi. Volevi farti dare indietro le percezioni che non avevi mai posseduto.

Eri delicata? La tua fragilità è scomponibile, mi sono sentito colpevole di averla annientata in pezzi, e mi sono detto poi che colpevole non lo ero affatto.

Pochi giorni dopo mi sei venuta a prendere a casa con la tua macchina verde, perché pioveva e io in quel periodo ero a piedi.

Dovevamo bere a lungo quella sera. Sembrava che ci conoscessimo da un po’, anche se era il nostro primo appuntamento.

Poi mi hai portato a casa tua.

Le cicatrici delle tue ferite, sulle gambe e sui fianchi, mi aprivano a una moltitudine che purtroppo non ho mai avuto o trovato il modo di conoscere. Ne ho potuta scorgere solo una piccola parte.

È un’infinità indominabile, la moltitudine degli altri, non credi? Chi s’illude d’essersene appropriato è uno sciocco. Non resta che cullarci nell’illusione di un contatto che non esiste.

Mi aggredivano quando mi parlavi, le cicatrici e i tuoi occhi, gialli, quando rivolgevi le tue pupille verso le mie e le fissavi brevemente, o quando eri distratta, incastrata nelle tue ansie e nelle tue brevi e fortissime follie, che mi mettevano a terra.

Ho una foto di te con il sangue che ti cola sulla coscia.

Quando abbiamo scopato la prima volta, quando mi hai portato a casa nella tua panda verde, che t’eri operata col laser per tentare una nitidezza che non avevi mai esplorato.

Non t’ho mai chiesto come fosse diverso il mondo, dietro quegli occhi nuovi. Mi sono pentito, di non avertelo mai chiesto.

Ho una foto di te che ti nascondi dietro le tende della portafinestra del tuo salotto angusto, le tende gialle. Si scorge solo la traccia di un corpo lontano, l’ombra formata dalla luce del sole sulla stoffa.

Intanto la pioggia smette di cadere. Ci rivolgiamo contemporaneamente verso il sentiero, dove vediamo passare un cane scuro e arzillo: per un momento si ferma, per sgrullarsi l’acqua di dosso.

Immagino che anche Eric, come sto facendo io, si concentri sui due uomini in ciabatte che seguono il cane: fumano e trasportano dei grossi cesti di vimini sulle spalle, coperti da teli di plastica. Dietro agli uomini un albero, e altri alberi con la corteccia calda e umida dietro quello. E ancora più in là, su altre montagne che non sono quella sul cui fianco siamo appoggiati noi, moltissimi ripidi terrazzamenti. È allora che i miei pensieri e quelli di Eric, gli stessi fino a un attimo prima, si distinguono, perché solo io posso intuire la tua figura nuda nascosta dietro agli alberi più lontani; una figura minuscola, enormemente distante; eppure è una nudità fortissima: tu, così minuscola, che sostieni un peso così grande, chilometri e chilometri di pelle, ogni traccia un odore differente, ogni particolare un’incisione più profonda.

In fondo, nell’orizzonte nebbioso, il Dalaughiri ha la testa tagliata sopra le nuvole, in una finestra azzurra. Poi le nuvole calano e lo impediscono di nuovo alla vista. Quando il Dalaughiri è coperto, io torno indietro a dove sono adesso, passando per i terrazzamenti, gli alberi e questo primo albero vicino a noi dopo il sentiero; gli uomini si sono volatilizzati, e con loro il cane. Tu sei seduta dietro a quell’albero. Sudi come sudiamo noi. Finisco il caffè, appoggio la tazza a terra e cerco in tasca le sigarette.

– Con Misato il sesso era strano: sembrava che non si dedicasse affatto al suo piacere personale, e che non desse importanza ai suoi orgasmi; li raggiungeva raramente. Si lasciava spogliare con calma, e sempre con un po’ di emozione, come se fosse la prima volta che la vedevo nuda, quando magari era la centesima. Poi lasciava che affondassi in lei come meglio credevo, senza chiedermi mai nulla di particolare, muovendosi poco, e interrompendo il suo silenzio solo raramente, con piccoli e impercettibili gemiti. Quando finivamo, mi accarezzava un po’ maldestramente il corpo e mi chiedeva se mi fosse piaciuto; la domanda la rivolgeva ogni volta al mio orecchio sinistro, tenendo la testa incastrata tra la mia spalla e il collo. La posizione che assumeva il suo corpo sul mio, dopo il sesso, era sempre la stessa, e quelle domande rituali erano ripetute sempre con lo stesso tono, con la stessa paura. Io non potevo che risponderle che sì, il sesso mi era piaciuto, ma in verità lei non è che facesse nulla di particolare per rendere la cosa coinvolgente. Io allora non so bene perché me ne sia innamorato…–

Tu il sesso lo divoravi, cristo, Alice. La prima volta che ti sei seduta sopra di me e hai cominciato a urlare mi hai terrorizzato, per la foga con cui te ne appropriavi. Ricordo bene come quella volta rischiai di perdere l’erezione, perché eri un corpo senza controllo, un oggetto inafferrabile. Mi trovavo dentro un sogno in cui mi cadevano gli oggetti dalle mani. La potenza che ne scaturì poi, quando imparai a maneggiare la tua carne, la nostra potenza, è la tra le nostalgie più terribili che ho.

– Te ne sei innamorato?–

– Sì, mi piaceva avere cura di lei, sai. Col tempo si aprì, e io scoprì la sua fragilità. A ogni modo, è scesa dalla nave quando abbiamo attraccato in Uruguay. Io ho proseguito i miei giri per mare.

Pensavo incessantemente a tutti i particolari del suo corpo a cui mi ero appassionato toccandola. Dalle gambe magre, e storte, al mento. Dal collo alla pancia. Pensavo pure alle ginocchia. Impossibile togliermela dalla testa; e mi masturbavo in continuazione. Nella memoria mi ero anche convinto che il sesso fosse una meraviglia. Mah. Sta di fatto che quando il contratto è finito e io, con i soldi e tutto, ho preso l’aereo per Lima, ancora pensavo a lei.–

I tre mesi successivi, Eric li ha passati in Perù, soprattutto sulle montagne. Quei mesi non riguardano Misato, e mi vengono descritti in poche parole; il racconto ricomincia con lei che gli scrive un’email e gli dice che lo pensa spesso e che lo vorrebbe toccare di nuovo, come lui vorrebbe toccare lei. Eric è così felice che non ci pensa due volte prima di prenotare, per il giorno dopo, un volo per Tokyo.

– A Tokyo, ho dedicato a lei tutto il tempo che potevo. Mi ha invitato a vivere nel suo appartamento di periferia, con un piccolo balcone e due gatti. Durante il giorno, mentre lei lavorava come praticante in un ufficio di avvocati in centro, io esploravo la città che non avevo mai visto e ingrassavo tutti i chili persi in Perù. Erano anni che non stavo così bene. La sera lei tornava a casa e io ero lì che l’aspettavo…–

Nella casa a piazza Bologna non avevi i fornelli, Alice. Entravo in cucina per bere, avevamo fatto del sesso micidiale sul pavimento del salotto e avevo sete. E in cucina non c’erano i fornelli, o almeno non erano visibili.

Ti svegliavi la notte, affamata, e fumavi per non mangiare.

– Avviamoci, non piove più–, mi dice Eric.

Io spengo la sigaretta e mi rimetto il pacchetto in tasca, mentre lui ripone moka e fornelletto nello zaino. Ci alziamo e riprendiamo il sentiero.

– Un sabato sera eravamo in un locale di Shinjuku, lo sai cos’è Shinjuku?–

– Sì.–

– Bravo… Beh, insomma, eravamo in una specie di dancing pub, diciamo. Con un bancone per bere in un angolo, e dall’altra parte divanetti in pelle e gente seduta a bere; in mezzo una pista da ballo con il pavimento nero e una luce stroboscopica mal funzionante. Eravamo io, Misato, e amici suoi. Bevevamo e ballavamo. I giapponesi bevono molto e si ubriacano facilmente. Io reggo di più, ma gli avevo dato giù forte, quindi ero piuttosto sbronzo.

Mentre ballavamo, tre uomini sui quarant’anni, seduti a un tavolino, due di loro in giacca e cravatta e il terzo con una polo, mi avevano squadrato varie volte con insistenza, ma alla cosa non avevo dato alcun peso. Credevo che mi guardassero così perché infastiditi dal fatto che un occidentale avesse rimorchiato una giapponese. Non me ne preoccupo, continuo a ballare, continuo a baciare Misato.

Quando apro gli occhi e mi separo da lei, perché devo andare a pisciare, noto che il pub si è svuotato. Della cinquantina di persone che avevo intorno a me fino a poco prima è rimasto solo il barista e tre ragazzi appoggiati al muro che ci guardano, fumando.

Passo vicino al bancone barcollando, chiedo al barista dov’è il cesso. Lui me lo indica. Entro nel bagno del pub, ampio e pulito. Dietro di me ho i giapponesi che prima mi fissavano.

Piscio e quelli parlano tra di loro a bassa voce. Mentre mi lavo le mani loro fanno lo stesso. Ne ho una a destra e uno a sinistra.

Mi sciacquo a lungo i polsi, bevo l’acqua ferrosa, mi sciacquo ripetutamente la faccia, mi bagno i capelli. Sono cose che faccio sempre, quando sono ubriaco. Mi piace la freschezza dell’acqua, e quando sono sbronzo me la godo particolarmente. Bevo a lungo. Lo specchio mi restituisce l’immagine di un corpo sproporzionato e lento.

Poi incontro lo sguardo del giapponese alla mia destra. Porta una cravatta di maglia blu, con un nodo piccolo, e mi fissa sorridendo.

«Io ti ho già visto, sai?», mi fa, e il suo inglese è perfetto.

«Non credo proprio», rispondo io, «sono a Tokyo da pochi giorni ed è la prima volta che ci vengo.»

«Sì, sì, lo so… non ti ho visto qui.»

«E dove ci saremmo incontrati?»

«Non te ne preoccupare, adesso… Ascolta piuttosto quello che ho da dirti.

La prima volta che i miei genitori mi hanno portato in piscina avevo sei anni. Io sono nato in America. Mia madre è di Boston. Ma quando avevo cinque anni ci siamo trasferiti a Nagoya, la città di mio padre. Conosci Nagoya?»

«Sì, ne ho letto in un romanzo.»

«Spero fosse descritta bene, in questo romanzo, perché la considero la mia città e voglio che se ne parli bene, che la gente se ne faccia un’idea attinente alla realtà. Soprattutto in Occidente. Era descritta bene?»

«Non so, non ricordo con esattezza… credo di sì.»

«Bene, bene…». Per un momento s’interrompe, guarda il suo compagno, si passa le dita della mano destra sulle labbra, accenna un sorriso.

«Ora, devi sapere che io sono di buona famiglia e questa piscina era la piscina più bella di Nagoya, non c’è dubbio su questo.»

L’altro giapponese annuisce spesso. Ci stiamo tutti e tre asciugando le mani con la carta. Io faccio fatica a concentrarmi su quello che il tizio mi sta dicendo, perché intanto devo tenermi dritto, in piedi. Rischio di cadere, ho un po’ di nausea. Appoggio una spalla al muro. Non ho idea del perché mi abbia rivolto la parola e sono sicuro di non averlo mai visto.

«Lunghezza olimpionica, 20 corsie, alte vetrate fino al soffitto. L’intera struttura è in vetro e acciaio. Io però non ero contento, perché odiavo nuotare, e perché vicino alla prima corsia, la corsia dove mi allenavo più spesso, c’era un ambulatorio. E io, avanti e indietro, vasca dopo vasca, pensavo che prima o poi mi avrebbero portato lì dentro e fatto a pezzi.

Il nuoto non faceva per me, insomma, ed ero anche terribilmente annoiato. Erano i miei genitori a costringermi a continuare. Sai: la salute, e così via. Per sei anni, sempre accompagnato da mia madre, tre volte a settimana, ho continuato a nuotare. Fino a quando qualcosa non è cambiato radicalmente.

Era il settembre dei miei dodici anni quando, al mio ritorno agli allenamenti dopo l’estate, trovai due meravigliose sorprese. La piscina era stata completamente ristrutturata e per questo l’ambulatorio era stato spostato in un’altra zona dell’edificio. Il luogo in cui sarei morto, tranciato in innumerevoli pezzi, non era più visibile dall’acqua. Inoltre, e questo mi rese ancora più felice, era stata montata una splendida piattaforma per tuffi. Blu oltremare. Una piattaforma perfetta, con i trampolini a tre, cinque, sette e dieci metri. Dovetti insistere molto, ma dopo un paio di mesi convinsi i miei che volevo mollare il nuoto per cominciare a tuffarmi. Fu così che divenni un tuffatore. E che tuffatore! Ero molto bravo, Eric.»

«Come fa a conoscere il mio nome?»

«Questo non importa, adesso. Importa che io finisca la mia storia. Importa che tu faccia attenzione e capisca cosa ti sto dicendo. Stai capendo, mi stai seguendo, o sei troppo ubriaco?»

«No, la sto seguendo. A dodici anni è diventato un tuffatore.»

«Uno dei più bravi, ripeto. Il migliore di Nagoya, di certo. Entravo in acqua come un siluro, senza spruzzi, senza mutarne mai la placidità, senza disturbarne il silenzio. E nel mondo intorno a me tutto aveva un nome. Oltre le alte vetrate c’era un mondo cangiante, sfuggente, innominabile, ma nella mia piscina sapevo il nome di ogni cosa, sapevo dominare ogni oggetto. Per farlo bastava tuffarmi. Poi risalire sulla piattaforma e poi tuffarmi di nuovo.

È grazie al mio destino di tuffatore che un giorno giunsi, dall’altezza del trampolino più alto, a una certezza che ritengo inequivocabile.

Dondolando la testa verso l’acqua, riflettendo sui movimenti da compiere per comporre al meglio il mio tuffo, divenni consapevole, e subito dopo certo, che qualunque essere umano che guardi in basso da una certa altezza, viene tentato dal desiderio di gettarsi. Che non esiste nessuno che sfugga a questa tentazione. Io avevo la grandiosa possibilità di sublimarlo, questo desiderio; cinque volte a settimana, in una caduta ripetuta infinite volte. “E il resto dell’umanità?”, mi chiedevo quella sera da lassù. Non esiste nessuno, te lo ripeto Eric, e capiscimi bene, nessuno, che non abbia la pulsione a gettarsi.

Capivo per la prima volta che la paura dell’altezza non deriva dal timore di compiere un passo falso, inciampare e cadere, ma dalla volontà di inabissarsi. Ogni uomo è teso sopra un abisso. E quando guardi in basso e in basso c’è l’acqua è ancora peggio, sai: l’attrazione è ancora maggiore. Quando sotto di noi c’è l’acqua, da qualsiasi altezza ci gettiamo, noi crediamo, o meglio sentiamo, che l’acqua accoglierà la nostra caduta, che ci avvolgerà, levandoci il respiro solo per pochi attimi per poi restituirci alle nostre vite precedenti.»

La storia del giapponese è finita, e io percepisco un dolore intensissimo in una zona circoscritta della nuca, un’area molto piccola tra il capo e le spalle, come un grosso ago, come la puntura di un grosso pungiglione.–

 

***

 

Eric, la mattina seguente, si risveglia su una panchina.

– Per qualche breve minuto, ancora in dormiveglia, mi concentro a guardare la faccia di ognuno di quelli che passano di lì, ma sono troppi, e camminano troppo in fretta. Poi mi rendo conto che sono su una panchina e non so come ci sono arrivato. Tutto quello che ti sto raccontando, ci impiego un tempo molto lungo a realizzarlo. Minuti. Mi gira la testa. Mi ricordo solo del bagno e del pungiglione sulla schiena; della notte seguente nulla. Vomito. Una signora sulla cinquantina che passa di là, un occidentale, accento francese, si ferma e mi chiede: «tutto bene?»

«No, credo di essere svenuto. Non so… non riesco a capire dove mi trovo…»

Lei indica il grande edificio davanti a noi: «quella è la stazione dei treni di Shinjuku.»

A quel punto mi ricordo della serata nel pub, mi ricordo che ero con Misato.

«Mi farebbe fare una chiamata? Ho un’amica che mi può aiutare.»

Lei fruga nella borsa e mi passa il telefono. Compongo il numero di cellulare di Misato. Lei risponde, immediatamente, e scoppia in lacrime. «Cosa hai da piangere? Dove cazzo sono? Cosa mi è successo?»

«Pensavamo tutti fossi morto, Eric…»

«Eh? Senti: dimmi dove sei, ti raggiungo.»

«Sono a casa…»

Riaggancio, do il cellulare alla tizia e mi muovo verso la metro. Sono spaventatissimo. Pensavano fossi morto.

Mentre sono nel vagone, mi appoggio con il braccio sinistro alle porte e noto il tatuaggio. Puoi immaginare che colpo mi è preso! Due tizi mi raccontano una storia assurda, io svengo e la mattina dopo sono in metro con tutto il braccio arrossato. Mi viene da svenire, la metro è piena, ingoio la saliva e scendo alla fermata di Misato.

Corro verso casa sua.

Quando entro mi abbraccia a lungo, poi mi dice che non mi hanno visto uscire dal bagno, che hanno pensato che i due tizi fossero dei mafiosi, che non hanno chiamato la polizia per paura di ritorsioni.

Io devo sedermi sul divano, per evitare di svenire, per non sparire. Misato ha appoggiato le ginocchia a terra, è crollata, tenendo il viso e le lacrime tra le mani.

Io rimango impassibile. Quella mattina ero indifferente a tutto, m’ero svegliato… m’ero svegliato che ero distante; hai presente la sensazione, Lorenzo? Quando ti ritrovi improvvisamente da un’altra parte del mondo, quella in cui abiti nella casa che ti sei costruito da solo. T’hanno allacciato alla corrente, al gas e all’acqua, ma se esci non incontrerai nessuno. Intorno c’è il deserto, in senso sia spaziale che temporale. Non c’è nessuno da nessuna parte, e non c’è nessuno per sempre.

Lei continuava a dirmi che mi aveva creduto morto, che era certa d’avermi perso. Ero nuovamente a faccia a faccia con l’assurda ritualità delle sue ripetizioni, come quando facevamo sesso, sulla nave da crociera, e lei mi chiedeva ogni volta se mi fosse piaciuto o meno.

Tra una frase e l’altra farneticava parole incomprensibili, in giapponese. “Chi è questa donna?”, mi chiedevo intanto io, con le mani poggiate sulle ginocchia, in attesa che smettesse di piangere.

«Credevo fossi morto, credevamo fossi morto…». “Beh non lo sono, Misato, cristo, sono vivo!”, pensavo intanto io; “cos’è, t’eri già abituata all’idea che fossi sparito? T’è bastata una notte per risistemare la tua vita intorno all’evento della mia morte?”

Ma non davo voce ai miei pensieri, li lasciavo navigare nella testa. Non ci tenevo a modificare quella realtà aliena con l’intervento delle mie parole. Ripeto, mi trovavo in un luogo e in un tempo d’indifferenza assoluta.

Sono passate un paio d’ore, a questo modo, con me mani sulle ginocchia e Misato mani in faccia; poi ho capito che era il momento che me ne andassi. Non è che vi abbia riflettuto, prima di deciderlo. Non era la conseguenza logica degli avvenimenti delle ultime ore, era semplicemente quello che mi sentivo, decisamente, di fare in quel momento. E l’ho fatto, e basta. Mi sono alzato, sono andato nella stanza da letto, ho preso il mio zaino, l’ho riempito, l’ho chiuso e sono tornato in salotto. L’ho guardata per qualche minuto, ancora in lacrime, ancora a terra. Sono uscito.

Qualche giorno dopo ho deciso che era ora di tornare sulle montagne e ho prenotato l’aereo per Kathmandu. Misato non l’ho più sentita.–

Qui in Nepal si rimette a piovere, e la meta è ancora lontana. La pioggia zampilla a grande velocità sul sentiero, spruzzi e pozzanghere. Passo dopo passo la perturbazione aumenta, con l’intensificarsi della forza del vento. Sembra che tutta la superficie del Nepal si sollevi, ubbidendo alle forze che la spingono dal sottosuolo. Gocce più grosse colpiscono gli stinchi, le ginocchia, le cosce, e la pioggia si arrampica sul corpo, fino a sferzare la faccia, e fin sopra la testa. Il cielo è chiuso l’universo ne è tutto riempito.

Si scatenano dei tuoni intensissimi, e noi stiamo per scavalcare un altro fiume, ingrossato dal monsone, violento, terribile, come le ossessioni che mi assalgono ogni giorno la mattina quando mi sveglio sul mio materassino disteso per terra, con la polvere nel naso, e ti ho sognato in incubi in cui mi confidi che hai trovato del sesso migliore del nostro, che sono stato troppo brutale con te, che non ho rispettato la tua fragilità, che ti ho gettato nell’angoscia.

Ci fermiamo di nuovo a metà del ponte.

C’è l’opposizione tra la ramificata profondità della giungla e, aggrappata ai fianchi delle colline, la tappezzeria di campi coltivati, che la interrompe e la recupera quando i tagli sulla superficie della terra vengono ricuciti. Sullo sfondo, più lontano, la ripidità radicale delle cime. Il range himalayano, la potentissima barriera che ci impedisce di tornare a noi stessi; ce l’ha impedito a lungo, per mesi, prima di ricondurci al presente tragico di queste concrezioni mentali, amalgamate con le circonvoluzioni della materia grigia, inestricabili, un labirinto senza traccia, una mappa senza legenda. Io e Eric siamo incapaci d’interpretarne le simbologie e siamo illeggibili.

Le nostre ossessioni sono cancerogene, obbligano alle chemioterapie dei ricordi, a staccare i peli del corpo dalle radici: ci svegliamo la mattina credendo che sia tempo di voler tornare, e ci manca la volontà necessaria ad affrontare il giorno come dovremmo. Ci rigettiamo ancora una volta nel sonno, un’altra ora o due, quando sono le cinque, ma quando torniamo a dormire non ci è concesso alcun sollievo; di nuovo incubi terribili. Tutti i morti che tappezzano il passato, gli uomini e gli animali, i malati, i maltrattati e gli odiati, gli errori e le impronte delle bestie che non esistono, le interpretazioni fallite, il cibo scaduto, e tu Alice, con il corpo orribilmente maciullato.

Tutto quello che pensavamo di aver seppellito.

S’aggrappano alla memoria come fa la neve sulle pareti più alte dell’Annapurna, per sempre. Ai ghiacciai non basterà certo il tempo d’uno scioglimento, per sparire: con il freddo del nuovo anno torneranno ad affondare ferite nella carne. Raschiano via tutte le nostre difese, crivellano la testa d’urla e di sputi, aggrediscono il corpo di sogno. Preghiamo per un’inversione magnetica dei poli, un cataclisma. Poi ci svegliamo.

I campi coltivati hanno colori marrone, verde chiaro, giallo.

Eric continua a camminare, camminare. Anch’io cammino, cammino, pesto i piedi sempre più forte, sfascio le articolazioni, sfracello la terra sotto i piedi. Il tramestio del tuo corpo scomposto, del tuo odore, in piena notte. Ti agiti e mi ti aggrappi al busto mentre il letto si inclina a novanta gradi, e solo la forza delle mie braccia, appese per le dita al bordo del materasso, ci tiene in vita sopra la voragine che si è aperta ai piedi del letto. Hai un alito terribile, trattengo il respiro per ore, mentre ti tengo la vita, impedendo che ti cada.

Quando mi sveglio, ho il tuo odore meraviglioso cacciato nelle narici, dolce, la morbidezza delle tue cose, il sapore della parete frontale della tua vagina sulle dita, che me le caccio subito in bocca. È l’illusione del dormiveglia. Guardo i miei piedi nudi, sporchi, le ginocchia vecchie, le tue gengive in mostra mentre ridi del mio corpo dimenticato.

Queste montagne ci contaminano, siamo i malati della pioggia monsonica, io e Eric, pieni di pustole e sanguisughe, con lo stomaco a rivoltarsi per il cibo andato a male, non ci laviamo mai. Affondo le mani nella barba come se volessi tirare il vomito fuori dalla gola.

Vorrei che da ragazzino m’avessero insegnato a saltare più lontano, rompendo, leggero, l’ordine del tempo, così da evitare l’ostacolo in cui ho inciampato all’inizio di questa breve lettera, sopra quelle montagne, e presentarmi alla finestra di camera tua per spaccarla con una testata. Prendo un pezzo di vetro e lo uso per inciderti il petto; lo spalanco e lo riempio di queste angosce che anche la sera, anche dopo aver dimenticato gl’incubi del mattino e faticato tutti i chilometri e le ore di veglia, sono ancora lì, prima che mi addormenti.

Ho passato tutto il giorno a pensare a te e a guardare le montagne.

Acqua, roccia, giungla, neve, deserto. Nell’ultimo mese avrò camminato 400 chilometri, su giù su giù ogni giorno, nel pantano umido e sporco e fangoso dei tuoi ricordi inquinanti, delle grandiose colpevolezze; questo splendido narcisismo che ci rende i potentissimi campioni del nostro destino. Ci relega al passato come se ne fossimo gli ultimi colpevoli. Vorrei catalogare in un solo pensiero dalla durata breve, in una compressione mnestica, la malvagia gravidanza delle mie nostalgie, la concentrazione d’immagini del tuo viso breve e spaventato, e riporlo in uno spazio della mente dove la mia desolazione le possa affrontare e annientare.

Siamo rimasti in silenzio molto a lungo; un’ora, forse. C’è stato un tuono, l’ennesimo, e poi Eric mi ha rivolto la parola, con il tono di voce molto alto, perché io lo potessi sentire al di là del temporale:

– Questa è la storia del mio tatuaggio. Ci sono alcuni segni, sul mio corpo, di cui Misato ha tracciato una nuova identità. Tutti questi segni io li ho perduti, non sono più in mio possesso. Ne posso solamente raccontare la storia. Questa linea che ho qui sul braccio è uno di questi segni.–

 

***

 

È tardi adesso, devo smettere di scrivere e tornare a casa perché il bar sta chiudendo e perché ormai è buio. Gli occhi si confondono e non riescono a seguire il segno della penna sulla carta come dovrebbero.

I canali sono immobili. Dal ponte dell’Accademia qualcuno ha gettato in acqua una barca di carta, dopo averle dato fuoco, e ora quella scivola sulla superficie del Canal Grande; verso San Marco, verso la Laguna. Domani rileggerò quello che ho scritto, finirò la mia lettera e poi te la spedirò.

 

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.