Da Kiev (#2)

di Giovanni Catelli

krestchatik3.jpg Osservate la foto. Proprio qui, sull’arteria monumentale di Kiev, il Kreshatik, vasto e severo viale di architettura staliniana costruito dopo le feroci distruzioni naziste, accurate anche nel cancellare il preesistente quartiere art nouveau, in questo luogo di interminabili parate sovietiche, esibizioni decennali di missili e carri armati, luogo dove il potere ha sempre dispiegato le sue seduzioni metalliche, le sue illusioni di pietra e cartone, le sue bandiere ormai mutate (dal 1991 la parata militare celebra l’indipendenza della nuova nazione, l’Ucraina), proprio qui è sorta, nei giorni successivi al primo ballottaggio fra Yushenko e Yanukovich, la tendopoli pacifica della rivoluzione arancione, il presidio permanente dei sostenitori di Yushenko, intenzionati a dimostrare la propria determinazione dopo i vistosi brogli elettorali,sino a circondare i palazzi del potere chiedendo un nuovo ballottaggio.

Ora, a distanza di quasi sei settimane dai giorni della massima tensione, in cui erano confluite su Kiev le forze speciali del ministero dell’interno di Mosca, quasi a tutelare in modo non solo simbolico la sfera d’influenza della madre Russia, dopo la decisione della corte Suprema di invalidare il primo ballottaggio indicendone un secondo per il 26 dicembre, e la conclusiva vittoria di Yushenko, assurto secondo le facili categorie dei media occidentali a capo dell’opposizione, paladino della novità e portatore di trasparenza, la tendopoli attende, ormai solo in parte popolata, il definitivo insediamento del nuovo presidente, ad evitare tardivi ed improbabili colpi di mano, e a far sentire tuttora, nei confronti dell’amministrazione uscente, il peso di un supporto popolare che si è effettivamente accresciuto in modo esponenziale dopo le oscure e pesanti manipolazioni della prima tornata elettorale.

C’è qualcosa di spettrale, ora, nell’immobile distesa di tende militari, abbandonate in parte dalla vita, con i cupi finestrini quadrati a spalancarsi sul buio, con radi fuochi ancora accesi, rapide impazienti fiammate rossastre nell’ampio chiarore giallo dei lampioni, minimi sbadigli nella vasta galleria di luce che confonde l’occhio del passante, lo trasporta dall’immensa Maidan Nezalezhnosti (Piazza dell’Indipendenza) giù giù sino al mercato Bessarabski e alle nuove torri di marmo dell’incontrollata crescita capitalista. Sembra di scorgere un’invasione di anfibi animali preistorici, dalla corazza color della polvere, arenatasi qui, sull’orlo della grande spianata, e misteriosamente sospesa, in un timore dubbioso, un’estinzione d’energie vitali, un segreto smarrirsi d’ogni volontà e direzione.

Chissà, forse gli eventi hanno già svoltato, più avanti ed oltre l’urgenza imminente della prima protesta, lo slancio d’indignazione dopo i brogli, la piazza colma di manifestanti, la “Rivoluzione Arancione” che, d’improvviso e magicamente vincente, si sta forse già trasformando in un’attenta distribuzione di poltrone, un accurato equilibrio di cariche e poteri, con voci subdole di un peggiorare della salute di Yushenko, dopo l’avvelenamento da diossina, e un emergere della figura di Yulia Timoshenko, pasionaria della mediatica rivolta ed emersa quasi indenne da non lontane e torbide appropriazioni di fondi dello Stato.

Sinora, il solo sangue versato, è stato quello del Ministro dei Trasporti, apparentemente suicidatosi, dopo aver destinato alla campagna elettorale dello sconfitto Yanukovich i fondi pubblici per la costruzione di un ponte. Come diceva un terribile motto d’epoca staliniana, quando si taglia una foresta, le schegge non si contano.

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Il Kreshatik nell’Ottocento

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