da “Canopo”
di Gherardo Bortolotti
2.23
mentre aspetti che il telefono, impostato sul dialing ad impulsi, componga il numero del server, che ti connette, come la chiave di un’arcata di cattedrale, alla rete, simile, nel suo universo di punti funzionali, ad una costellazione di agganci numerici, secondo una formula combinatoria di ottetti, consideri l’estensione della superficie del tuo disco fisso, attraverso la quale viaggia la testina del lettore, cercando nei boulevard dei solchi, blocco dopo blocco, in una città circolare ed ordinata, le frazioni dei file che raccolgono la tua vita e le tue opere, decidendo che il silenzio elettromagnetico che l’attraversa, intrecciato dal crepitio ultrasonico delle scariche, può essere il posto dove riposare in pace e che, se potessi, vorresti essere inumato in sequenze di bytes.
4.30
nonostante le conferme successive, contrattate, a distanza di ore o di giorni, nelle rinnovate profferte del nostro amore, le cui dichiarazioni, come una griglia di sinonimi che chiude l’area di un concetto inespresso, forniscono alla vaghezza che ci abita, ed all’indeterminatezza dei nostri cuori, l’edificio che ci tiene insieme per la vita, continuiamo ad ammassare le scorie di tentativi di evoluzione falliti, di ponti lanciati tra livelli incoerenti, di inviti ad avvicinamenti incompresi che, come le macerie di una costruzione interminabile, soffocano le soluzioni più indovinate dell’architettura del nostro affetto.
1.34
senza badare alle fughe prospettiche delle implicazione di ciò che dico, tirate come corridoi laterali in cui, per la fretta, non posso nemmeno guardare, come se ogni mia parola, come la mia vita, avesse solo il peso dell’aria che smuovo nel produrla, confido a chi mi sta di fronte che mi piace questo o quello, al di qua del tavolino del bar, lungo la cui circonferenza, come giochi di parole intraducibili, dalla lingua dell’autore di questo frangente al codice della mia percezione, si spostano continuamente i significati della mia dichiarazione, allungandola in continue relative che, nella struttura semantica di ciò che credevo di dire, a dispetto della supposta comunicazione a cui partecipo, proiettano le classi di intersezione tra lo spazio dei miei pensieri e le aree anteriori di un discorso che mi contiene, come un termine di paragone.
6.13
compresi, nel discorso che ordina gli elementi che assumono costituire il loro personale passaggio sulla terra, in continue proposizioni generiche, la cui semantica individua delle quantificazioni universali che, anche a fronte di evidenti eccezioni, mantengono un valore di verità positivo, quali, ad esempio, “gli uccelli volano” o “gli uomini sono uguali di fronte alla legge”, confondono i piani lungo i quali dispongono vita, morte e miracoli, propri od altrui, e, nelle conferenze tenute nel dopo-cena, o nei brevi question-time che concedono nei bar, all’ora del caffè, ritagliano porzioni di senso esagerate, e triangolazioni di analogie e conclusioni in cui l’oggetto del loro intuire, cadendo negli spazi inutilizzabili dei loro enunciati, si sforma in barocche perifrasi di relative e paragoni, per lo più arbitrari.
9.18
pieno, come un server clandestino, di mpeg di lio introvabili, di sigle di trasmissioni culto giapponesi e di riviste senza scadenza fissa, in cui recuperare, tra le fotografie ed i poster underground, l’intervista all’attore feticcio di un unico film, diego non usciva mai di casa, se non per spedire, alla posta, i pacchi di trouvailles assurde ai collezionisti che lo contattavano in rete, e restava di fronte ai monitor dei suoi pc a fumare, ascoltando “move your mp3” degli hammond inferno e a sfruttare, come meglio poteva, la banda della sua adsl e le raggiere infinite delle directories condivise dove, nascosti tra i readme e le liste di file, trovava le tracce meno sospettabili di vita o di verità con cui arricchire, di un altro, insostituibile tratto, l’archivio ipertrofico del proprio gusto e dell’intuizione di un’epoca di collezioni, cataloghi e singolarità.
davvero notevole.
eccezionale, anche (parlo da un punto di vista che mi ossessiona, ma al quale tengo) dal punto di vista della PIENEZZA METRICA (l’effetto di giambi e anapesti è sempre vivace e potente) E RITMICA (nel senso più largo di ritmo, con Meschonnic, ecc.). grazie di averlo scritto, ce n’è un bisogno estremo…
massimo
Mi associo all’apprezzamento. Ho conosciuto certi suoi testi a una lettura milanese abbastanza recente, organizzata da Andrea Inglese, direttamente dalla sua viva voce. Leggere è un’altra cosa, però. (Con buona pace dei readings e dei poetry slam).
Mi affascina, la sua ricerca.
grazie ad andrea per l’ospitalità e a massimo, franz e bill per i commenti che farebbero gongolare anche uno molto più modesto di me (non difficile a trovarsi, in effetti ;-)!
grazie davvero.
giambi e anapesti non fecero dello scrivente un capisti, alla pienezza offende il senso mancato, la tattile emozione evaporata.
Ma a cosa serve una critica che non fonda il proprio giudizio sulla qualità emotivo-estetica dei testi?! Si, i giambi… ma tutta questa mancanza di originalità…
PR, non capisco se lei se la stia prendendo con i critici o col poeta, nel primo caso non sta scritto da nessuna parte che ad ogni testo debba necessariamente far seguito un discorso esaustivo, ognuno è libero di commentare se e come crede; nel secondo mi sentirei di consigliarle di rileggere con calma e attenzione lo scritto per accorgersi che non è né il senso né la sensibilità a mancare in testi di un certo spessore…
“(…) le frazioni dei file che raccolgono la tua vita e le tue opere, decidendo che il silenzio elettromagnetico che l’attraversa (…) può essere il posto dove riposare in pace e che, se potessi, vorresti essere inumato in una serie di bytes”
– da leggere, credo, come stele poetica: quello che l’autore salverebbe del quotidiano smercio di caos che dissipa l’esistenza, riposerebbe nel residuato bellico della macchina da lavoro poetica, giusto un attimo prima che si metta in funzione, quando ogni fedeltà di dettatura verrà inevitabilmente disattesa e tradita, perché è “come se ogni mia parola, come la mia vita avesse solo il peso dell’aria che smuovo nel produrla (…) a dispetto della supposta comunicazione a cui partecipo (…)” solo “come termine di paragone” e in paragoni “per lo più arbitrari”.
Riflessione sui difetti d’incomunicabilità di cui si fa verifica quotidiana, e che si ripercuotono (e lei PR ne diventa emblema, suo malgrado) identici nella scrittura, ma in una scrittura che di quei difetti era già ben consapevole a monte e dello scacco non fa mistero bensì discrimine etico, in termini di onestà intellettuale, intendo, e tutto questo va solo a suo merito.
Ovvio che si tratta solo di mie considerazioni, l’autore potrebbe anche essere in disaccordo, ma la sostanza del mio discorso è che prima di rimpiangere la “tattile emozione” bisognerebbe ricordarsi che solo l’inautentico svapora…mentre una poesia come quella delle 4:30 resiste insonne con tutto intero il suo carico emotivo e dura.
bisognerebbe ricordarsi che solo l’inautentico svapora…
Lei, gentile Maria, ha detto tutto