da “Tecniche di basso livello”
236-237
236. Nella certezza di essere dalla parte del torto, ci limitavamo a sollevare questioni di procedura, di buone maniere, nei confronti dello stato delle cose. Ci chiedevamo la ragione di episodi quotidiani, imperscrutabili come la forma delle nuvole. Al telefono, guardavamo di sbieco, seguendo le fughe dei battiscopa verso angoli retti, metafisici.
237. Nemmeno all’altezza dei nostri cellulari, diventavamo adulti e scoprivamo cose che non avremmo mai più avuto il tempo di capire davvero, come le macchine di Turing, Lacan, la teoria dei sistemi. I termini della nostra personalità erano i nostri piedi, le emicranie psicosomatiche, la cellulite.
146-147
146. Tutto sembrava implicare che ci dovessimo limitare alla sola presa visione. Le miserie per strada, gli orrori tematizzati dal telegiornale, il vuoto che si scavava nella nostra cittadinanza erano solo regioni di particolari più o meno coerenti, in un quadro più vasto, impossibile a vedersi intero, comunque estraneo.
147. Le nostre avventure quotidiane si svolgevano all’ombra di grandi figure di persone famose, modelle, leader internazionali che si deformavano con la propagazione nei media. Ci svegliavamo la mattina per andare al lavoro, ripetendoci, nell’intimo della nostra coscienza, nomi come “Kate Moss”, “Bill Gates”, “Ahmadinejad”.
198-199
198. Sperando in un segno di benevolenza, leggibile nelle coincidenze dei semafori o nelle proposte della programmazione televisiva, rimandavamo a data da destinarsi la disamina dei nostri sospetti (circa il nostro fallimento, circa la strategia di ritiro dall’Iraq). Parlavamo, spesso, di scenari possibili e di linee narrative in cui non toccava a noi morire ma, poi, non ne facevamo nulla e tornavamo a casa, per masterizzare un film, per rispondere alla posta.
199. Dall’attesa della morte, ci distraevano le pubblicità delle agenzie di viaggio. Come robot buoni, ci incamminavamo dentro lunghi vicoli ciechi che costeggiavano gli anni dei nostri acquisti, i pomeriggi da soli, le visite dai parenti, ed in genere si chiudevano in qualche reparto di chirurgia, in istituti per malati terminali all’avanguardia.
134-135
134. Le testimonianze sembravano provare il contrario ma, in effetti, eravamo vivi. All’inizio della stagione televisiva, quando la sera ci trovava impreparati, senza abitudini, di colpo ci sentivamo respirare, vedevamo la nostra ombra sul muro del bagno. Alcuni particolari irrilevanti ci tornavano alla mente, alcune gaffe, alcuni gravi sbagli commessi nei confronti degli altri.
135. Frequentavamo distrattamente il nostro corpo, trovandoci spesso nella posizione di chi non crede del tutto a quello che vede. La pubblicità delle cucine sembrava l’esempio di una verità più piena e, a conti fatti, più plausibile.
286-287
286. Nella fondazione dedicata ai suoi ricordi, bgmole raccoglieva particolari incongruenti, scene vergognose, schemi di illusioni e coincidenze. Nel week-end, quando le ore tornavamo a durate naturali, affrontava il pomeriggio principalmente dormendo e, in alcuni casi, leggendo la posta on line.
287. Chiamate a raccolta le evidenze di una nostra stagione passata, di una giovinezza moderata, solitaria e squallida, uscivamo allo scoperto e ammettevamo di aver fallito in tutto: gusti musicali, amori, letture. Rimanevamo sulla soglia di un’ulteriore triste conclusione, toccando una cartolina trovata nel cassetto, un vecchio portachiavi, una t-shirt di Morrisey e pensavamo, involontariamente, ad altro.
15-16
15. Sulla cresta del progresso, forti della nostra acqua calda, degli antibiotici, delle reti a banda larga, guidavamo nel traffico alla volta del futuro e delle nostre occupazioni transitorie. Impressioni di errori compiuti e appartamenti in disordine. Lasciavamo la mossa successiva al fato ed i nodi arrivavano al pettine di qualche mano altrui.
16. Dopo il lavoro, nei golfi di occupazioni inutili, bgmole perdeva porzioni della sua persona, intere stagioni di pensieri a cui non era possibile risalire, ed arrivava all’ora dei pasti con poche cose da dire, con uno sguardo sottilmente isterico. Si cibava, guardando le briciole ai piedi del suo bicchiere, le loro ombre minime sulla tovaglia, convinto dell’imminente rivelazione che tutto questo era una finzione, una specie di effetto ottico troppo a lungo ignorato.
97-98
97. Passeggiando come un contemporaneo, hapax aveva una percezione distratta delle vaste strutture di dati, di gerarchie d’immaginario che attraversavano il suo cielo, come astronavi piramidali sui quartieri della periferia. Molte delle cose che gli venivano alla mente, lungo il cammino, avevano implicazioni complesse, di cui non riusciva a dare conto. Le pezze dell’asfalto, i particolari delle macchine parcheggiate, le ombre nei giardini condominiali, ad un certo punto, riempivano il suo sguardo, la sua coscienza.
98. Lontani dagli abusi sui clandestini, seguivamo le vicende della nostra serie preferita e ci preparavamo ad esprimere opinioni in merito al giorno d’oggi ed alle mutazioni climatiche. I nostri pensieri tornavano spesso ai giorni della nostra infanzia ed ai tempi in cui il mondo, e la merce, avevano aspetti d’innocenza e di mistero.
130-131
130. Ci muovevamo nei territori di una nazione profonda, di una repubblica a cui partecipavamo con l’acquisto, con la scelta del canale, con i commenti in rete. In pochi avevano nozione dello stato delle cose.
131. Ci ripetevamo spesso che non era detta l’ultima parola e che la nostra carriera di contemporanei poteva ancora avere una svolta risolutiva. Le notizie dall’Iraq e dall’Afghanistan erano sempre più frammentarie. Rimaneva, in molti, la sensazione di aver scordato, o taciuto, un particolare significativo, nel passaggio all’impiego ed all’età adulta.
194-195
194. Facendo le ore piccole guardando la televisione, kinch finiva per trovarsi in strane, quiete regioni notturne, mentre la periferia era attraversata da lontani rumori. In quel silenzio, le inquadrature trasmesse dalle tv locali, i pezzi di vecchi film anonimi, le televendite, rivelavano messaggi in codice lunari, accennando a qualche ricordo inorganico, prenatale.
195. Negli angoli dell’appartamento venivano ad accumularsi questioni irrisolte, concernenti la migliore o peggiore qualità della vita che conducevamo. Le distanze tra lo stato delle cose e la curva dei nostri progetti aumentavano il senso di una conclusione incongrua, di una specie di grosso equivoco sull’estensione ed il valore della nostra vita. Senza morali da trarre, guardavamo il telegiornale, affascinati dalle immagini in movimento.
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(Foto A Inglese)
Avevo ascoltato Gherardo Bortolotti leggere suoi testi a Romapoesia due anni fa, invitato da Marco Giovenale (e a Giovenale si deve anche, qualche mese fa, la pubblicazione di altre di queste lasse, «Soluzioni binarie», nella sua bella collanina Felix). Era la cosa meno inquadrabile e dunque, per me, più interessante. Già allora, peraltro, mi veniva da obiettare, o meglio osservare, che quella presentata in un contesto poetico, soffrendo mi pare per la sua irriducibilità alle convenzioni del medesimo, era una scrittura
interessante, invece, per il suo aspetto narrativo. Certo, non narrativo
come s’intende oggi la narrativa pret à porter di cui ci deliziano, ahinoi, i cataloghi editoriali. Né narrativa come si dice narrativa di certa poesia ronronzante in camera da letto. Ma semmai “denarrativa”, nel senso in cui chiama le sue “denarrazioni” Mark Strand. (Pur usando, ovviamente, strumenti tutti diversi.)
Qualche tempo fa su Absolut Poetry era stata postata una parte dei materiali letti da Bortolotti a Romapoesia. I commenti insistevano sul cut-up della tradizione del moderno, sulla loro algida noncomunicatività ecc. Già allora mi pareva che si fosse fuori strada. Più ancora di quelli, questi nuovi testi mi colpiscono, al contrario, per una loro abbandonata (e abbandonata proprio perché con tanto rigore irreggimentata) inconsolabilità. Per la pacata, quieta e appunto inconsolabile disperazione che esprimono, specie quando usano la prima persona plurale. Come dice un frammento qui non incluso, 171, «Una nostalgia estranea, feroce, disperata».
In un altro, 176, si offre un titolo segreto: «Ai piedi della democrazia». È questa, infatti, una vera scrittura politica, una delle poche credibili che oggi sia dato leggere. Se è vero che la politica che ci è data in sorte muore strangolata dal non avere più la minima ampiezza di respiro, il breve giro di questi box di microvita associata è allegoria della nostra soffocante cellularità. Del nostro essere monadi pallide e svogliate, scarsamente convinte dell’esistenza di una qualsivoglia realtà al di fuori della loro esperienza immediata (eppure, che intensità quando questo schermo sembra infrangersi: «In alcuni scorci della giornata, nel mezzo del fine settimana, avavamo l’impressione di essere vivi e, quindi, irreali»: 21).
Conosco ancora davvero poco del lavoro di Gherardo Bortolotti, e più ne vorrei sapere; ma intanto ringrazio lui, Marco Giovenale e ora Andrea Inglese per aver offerto a me e a tutti la possibilità di cominciare a familiarizzarci con una scrittura davvero interessante.
Devo anche aggiungere che in queste settimane per la prima volta scritture interessanti arrivano, prima che per via cartacea, su blog e altre forme di pubblicazione telematica. (L’altra è quella di Babsi Jones.) In questi anni abbiamo discusso, sino a sfinirci, sulle novità promesse da questo canale; ma reali novità di scrittura, sinora, dalle nostre parti non mi pare l’avessero attraversato. Ora, finalmente, si comincia a fare sul serio.
I migliori auguri a G.B., Andrea Cortellessa
Vedo in queste cellule di scrittura un homo technologicus solubilizzato, disciolto nella rete come un globulo che segue la corrente dei dati. Più che di rapporto con la tecnologia parlerei di una sorta di ibridazione con essa con conseguente appiattimento della tridimensionalità del quotidiano. Il terrore e la disperazione in circolo nel sangue, sostanze psicotrope, una gelatina che filtra tutto il reale.
Scrittura notevole, densissima, con senso del passato che sa di irrimediabilità, evocazioni di vissuto fatte in un presente altro, quasi un limbo, un regno delle ombre.
Bellissimi, davvero. Sotto, Debord, ma anche Nelo Risi. Intorno, sopra, a fianco, la scrittura limpida di chi sa scrivere. Un augurio di cuore, Viola
mi sembra che questi testi/stati siano inquadrabili in una categoria “rappresentazionale”: dipintura piatta tenuta da scrittura costruita ed evitabilissima.
Trovo questi testi molto razionali, ma nell’insieme, penetranti.
mi piace molto questo pezzo della 194:
In quel silenzio, le inquadrature trasmesse dalle tv locali, i pezzi di vecchi film anonimi, le televendite, rivelavano messaggi in codice lunari, accennando a qualche ricordo inorganico, prenatale.
Difficile imbattersi nella rete in scritture di qualità.
Questo incontro con Bortolotti è un’occasione felice.
Voce inclassificabile, autentica.
Che possa avere tutta la visibilità che merita
sublime.
saluti,
rs
Ciao a tutti,
volevo ringraziare Andrea Inglese per il post e tutti gli altri per gli interventi.
Approfitto anche del bellissimo commento di Andrea Cortellessa (grazie!) per rilanciare due punti che lui tocca.
Il primo è la questione blog: sono davvero felice che il valore che hanno i blog per la presentazione e l’elaborazione di nuova scrittura venga riconosciuto. Tutti abbiamo avuto esperienza della “insufficienza” di molta scrittura prodotta e distribuita sui blog (come, d’altra parte, anche di quella di molta scrittura prodotta e distribuita altrove) e, quindi, non starò a cantarne lodi generiche e ideologiche. Tuttavia, mi sembra che le si possa riconoscere almeno un merito davvero importante e cioè il fatto di dare luogo e di rispondere ad un nuovo tipo e ad una nuova esigenza di fruzione/produzione letteraria.
Il secondo punto è l’elemento “denarrativo” che Andrea sottolinea nei miei testi. Per conto mio, mi sono sempre dichiarato un narratore esule (felice, anche se con alti e bassi ;-) nella terra dei poeti e, quindi, mi riconosco in questa definizione. Però vorrei superare la mia questione singolare e provare a far convergere questa riflessione su un’altro post, quello fatto da Inglese ormai un paio di settimane fa su Absolute Poetry e raggiungibile qui, dove si parla di sconfinamenti sia di tipo geografico ma anche citando esempi di sconfinamento tra poesia e narrazione, per esempio nella produzione francese di questi ultimi anni. Per conto mio, potrei citare diversi esempi di produzione statunintese che, a partire dagli anni ’70, iniziano ad incorporare la prosa con soluzioni diverse dal poème en prose e, allo stesso tempo, disfano il tessuto narrativo e il modulo romanzesco. Questo processo di sconfinamento, d’altra parte, non è solo un fenomeno estero (non per niente la collana dello stesso Cortellessa, Fuoriformato, “si apre a testi irriducibili a convenzioni di genere, impaginazione, stile”) e, per di più, nella nostra tradizione anche recente, ha fornito degli esempi eccezionali (mi limito a citare Calvino e Manganelli). Sarebbe forse interessante iniziare a pensare questi sconfinamenti come il nuovo “luogo comune”, su cui convergere e da cui partire, abbandonando come mera “distinzione merceologica” quella tra poesia e prosa, o poesia e fiction o quant’altro.
caro bortolotti, forse più che la distinzione prosa/poesia, o forse contestualmente, occorrebbe “liberare” la poesia dall’appiattimento identificativo con la mera lirica. Per secoli la poesia è stata diegetica, ha
n a r r a to, esortato, ironizzato, fustigato, pregato, salmodiato prima di giungere a quella deriva storicamente narcisistica della poesia lirica contemporanea. Concordo quindi con la necessità che vedo peraltro condivisa da molti altri di recuperare tutte le potenzialità della scrittura in poesia, di viverla fuori da ogni ghetto monadico e formale. Un carissimo saluto, Viola Amarelli
ho letto questo testo con voracità. Per fortuna ne ho trovati altri on line.
grazie Bort
fem
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