Dalla Milano da bere a quella da vomitare #1
di Franz Krauspenhaar
1. C’era una volta la Milano da bere…
Nacque tutto da uno spot, quello dell’amaro Ramazzotti. Sulle note di Birdland, capolavoro jazz-rock dei Weather Report, si stendeva un tappeto d’immagini glamour della città di Milano nel pieno sfolgorio di paillettes. Se negli anni Sessanta c’era stata l’anticipazione – proprio l’aperitivo immaginifico – del grande attore teatrale e televisivo Ernesto Calindri, che beveva il suo Cynar in mezzo a una piazza (Piazza Siena, vicinissimo a casa mia, dove nel settembre del ’67 vidi sfrecciare la Fiat 1100 scura della banda Cavallero inseguita a pistolettate da due Gazzelle Alfa Romeo della polizia) , mentre le auto, nel bianco e nero della pellicola d’antan, sfrecciavano non solo simbolicamente attorno all’attore che placidamente sorbiva il suo aperitivo “contro il logorio della vita moderna”, vent’anni dopo tutto era cambiato, a parte la speranza di un nuovo rinascimento all’ombra della Rinascente. Milano si ripresentava nell’immaginario degli italiani non più come il mulo da traino dell’intera economia nazionale, ma come dispensatore di mode, vezzi, abitudini. L’aperitivo non veniva più sorbito in Galleria, come da decenni di tradizione, ma per il lungo e il largo di una metropoli pulsante, una specie di piccola mela rilucente, che aveva allontanato da sé tutte le nebbie propagate dagli anni di piombo. Gli anni Ottanta furono gli anni di Milano, questa Milano da bere che, a partire da uno slogan felice e di successo, riprese a rappresentarsi agli occhi dell’opinione pubblica e dell’immaginario collettivo come simbolo di durata nel successo, di velocità, arditezza, anche di gioia di vivere.
Erano finiti i tempi della Milano antonioniana disarcionata da se stessa, quella de La notte, una Milano che si spegne malinconicamente la sera, lasciando andare i propri personaggi verso l’oblio di una festa per ricchi, e defluire verso un addio. Ora, dopo l’intervallo da coprifuoco degli anni Settanta – anni di lotte politiche, di camionette della Celere posizionate notte e giorno in Piazza San Babila, covo dell’estremismo di destra – il rinascimento di una città verticalizzava una spinta propulsiva che sembrava inarrestabile; in concomitanza e serrando le fila, i socialisti di Craxi facevano il bello e il cattivo tempo amministrando la città con una disinvoltura inedita anche per un paese già abbastanza disinvolto nel governare come l’Italia, e poi il made in Italy della moda, che finalmente usciva allo scoperto andando a conquistare mercati in tutto il mondo, sicché la zona più centrale della città, a due passi dal Duomo e sede delle vie dell’incontestabile glamour nazionale venivano battezzate “Triangolo della moda.”
Era il neoboom, era il ritorno di fiamma di una speranza di progresso che nella città, al di là delle folgorazioni pubblicitarie, era palpabile a ogni ora del giorno e della notte. I locali erano di nuovo presi d’assalto, si suonava il jazz per tutta la città, si riempivano i ristoranti e i menu diventavano più internazionali, dando spazio alle leggere voluttà della nouvelle cuisine. E le discoteche, che sparavano per le sale la musica tipica di quegli anni, tra la disco e la elettronica, il tambureggiare asfissiante di motivi che celebravano la trasgressione gay come Relax dei Frankie Goes To Hollywood, e che in locali come il Divina – famoso per la clientela gay e lesbo tranquillamente mischiata a quella etero – diventavano inni di un’ era nuova, di un periodo nel quale la prosperità economica coesisteva con una disillusione da ultimo spettacolo che gli anni Sessanta, più ingenui e impreparati al peggio, non avevano avuto.
Milano viveva al di sopra della proprie possibilità in una specie di apnea della felicità, facendo finta di non aver capito quello che sarebbe successo, in una finta ingenuità che da Tangentopoli in poi la città e poi il resto del paese avrebbe pagata cara.
2. Come la realtà quotidiana divenne un mito
Marco Mignani era un pubblicitario illuminato. Se ne è andato nell’aprile di quest’anno, stroncato a 64 anni da un tumore al colon. Era una specie di simbolo ignoto ai più di una città, Milano, che è stata e forse è ancora un modo di essere. Era un periodo florido per la pubblicità, quello degli anni Ottanta: Carosello aveva lasciato il campo ai “commercial” d’impronta statunitense, fatti di brevi spot – proprio macchie filmiche straordinariamente compresse e complesse, nelle quali esistono, nello spazio a volte di pochi secondi, luci, ombre, suoni e dialoghi propri di un vero film, soltanto enormemente “infeltriti” nel tempo. Mignani era un uomo saggio e tranquillo, soprattutto un uomo di grande creatività. Il pubblicitario è una specie di scrittore a tema, che deve trovare, più che uno svolgimento, una chiave. Al contrario di uno sceneggiatore cinematografico o di un romanziere, deve partire da uno sviluppo, fatto dalla sua osservazione della realtà, per arrivare a un’idea nodale, a un nucleo sintetizzante, che deve racchiudere uno slogan e soprattutto una filosofia. E’ un lavoro tutto di compressione e di sintesi, difficile perché bisogna sfrondare, cercare quasi l’assoluto, cercare la fiamma dell’idea primigenia.
Mignani divenne famoso per lo slogan sulla Milano da bere dell’Amaro Ramazzotti, a metà anni Ottanta. Uno slogan che uscì dal comparto pubblicitario e dalla società dello spettacolo e dei suoi fruitori, e divenne simbolo, prima positivo e poi irrimediabilmente negativo, allo scoccare dell’ora terribile di Tangentopoli, di una speranza disattesa ferocemente.
Ma quest’uomo, che non aveva nulla del pubblicitario avido e cinicamente temerario che proprio certa pubblicistica ha rappresentato, è stato lo scopritore – come un cercatore d’oro lo è della vena aurifera che lo farà ricco – di altri slogan felici e passati alla storia: come quello dei “dieci piani di morbidezza” per Scottex, o “più buono proprio non ce n’è” per Beltè. Si potrebbe andare avanti a lungo: Mignani davvero faceva il mestiere del cercatore d’oro, se crediamo alla suggestione che ogni buona idea c’è sempre stata; bisogna soltanto farla venire magicamente alla luce.
Certo, lo slogan del Ramazzotti era stato trovato dal pubblicitario milanese proprio da una precisa osservazione di come la città in quel periodo stava velocemente cambiando: Mignani osservò le modelle che arrivavano a frotte in città, come se Milano fosse divenuta una sorella di New York, osservò il cambiamento del rito dell’aperitivo, i ristoranti del centro che cominciarono a inventarsi piatti nuovi per tempi nuovi, come il carpaccio con la rucola. E in effetti, se andiamo a rivedere quello spot, ritroviamo convulsamente ritratti i momenti di una giornata tutti reali, tutti vissuti, tutti visti da tutti. La rappresentazione mitizzata di una realtà che allora era tangibile.
3. Tutto e solo impegno
”Si, Milano è la città dell’amaro Ramazzotti, l’amaro di chi vive e lavora, l’amaro della vita, di una giornata che non è mai finita, che è nato qui 170 anni fa e che ancora oggi porta dovunque questa Milano da vivere, da sognare, da godere; questa Milano da Bere.” Questo era il testo del famoso spot pubblicitario che annunciò gli anni dello splendore meneghino. Era un amaro, una bevanda ad alta gradazione alcolica che serve alla digestione di “piatti forti”. In pochi minuti i capisaldi della città venivano mostrati da una macchina da presa famelica, che sembrava ingurgitare senza pietà, con la follia di tutti i dopoguerra, strade, piazze, situazioni, momenti di lavoro e di relax. Era come se non ci fosse separazione tra un atto e l’altro della giornata. A Milano tutto era impegnativo, ma con successo, come se si andasse al lavoro fischiettando su quelle note americane, su quella colonna sonora da film hollywoodiano. Una città americanizzata, un po’ Wall Street di Oliver Stone, un po’ Vacanze di Natale dei Vanzina, sussiegosa e clamorosa, plastificata e impellicciata. Una città ubriaca di quell’amaro che divenne appunto calice da sorbirsi all’indomani del crollo verticale, quando tutto quel tormentoso abbandono all’ottimismo divenne dopo sbornia annunciato mille volte, divenne chiusura definitiva del dopoguerra e delle sue illusioni e delle sue speranze, divenne l’oggi.
(Pubblicato su La Tribuna – 30.06.2008. Continua.)
Lo spot si apriva col bancone del bar Magenta. Fu uno shock, per me, che lo frequentavo. Fu come scoprirsi dentro una mitologia urbana, senza saperlo.
«Non è vero che tutto fa brodo» (Marcello Marchesi), sono articoli come questo che fanno la differenza.
Un po’ Wall Street un po’ Vacanze di Natale… Bello. Solo il titolo mi piace poco… (scontato, troppo espressionista – direi).
Ormai il modello della città “da bere” si è diffuso su tutto il territorio nazionale, almeno in certi strati sociali. Dal digestivo all’aperitivo, appunto. In un paese che sta non alla frutta, ma all’ammazzacaffé!
Efficace. Non c’è null’altro da aggiungere, credo.
Secondo me, siamo anche andati oltre l’ammazzacaffè, in questo luogo che è tutt’altro che un Belpaese.
All’orizzonte, l’Armageddon del neoliberismo…
Ma lo sai che sei proprio bravo?
jol
“Erano finiti i tempi della Milano antonioniana disarcionata da se stessa, quella de L’eclisse, una Milano che si spegne malinconicamente la sera, lasciando andare i propri personaggi verso l’oblio, defluire verso l’indistinto.”
credo che sia stata, nella mia fantasia, la Milano che avrei potuto amare di più.
@Juliette
non credo che quella Milano sia finita, come invece scrive k. Non so se fosse da amare.
Tuttavia, per intervenire in merito, aspetto di leggere il seguito. Voglio capire come Milano riesca a diventare un elemento oggettivo/distante – in un autore il cui recente efficace libro, iniviato da un efficace ufficio stampa milanese, è da poco arrivato sulla scrivania di un’efficace precaria, il tutto in elegante atmosfera postamaroramazzottiana. Prima di mettermi le due dita in gola per il “vomitare” del titolo, voglio capire di chi sono le dita, di chi la gola.
[…] L’improvvisa e mostruosa crescita, l’aumento della popolazione e della ricchezza, l’incredibile livello di attività di ogni genere hanno messo in pericolo il carattere della citta’. I nuovi distretti, molti di essi costruiti sopra i vecchi vicoli intricati, sono anonimi e senza carattere, fatti da corporazioni per corporazioni, non da uomini per uomini, come si faceva prima. La naturale diffidenza dei Milanesi per la politica significa che anche in citta’ le posizioni di autorità sono affidate a uomini esterni, nelle mani di una burocrazia che viene da altre parti d’Italia; e questo non ha portato via alla città la propria onesta’, i bisogni e le tradizioni fondamentali che hanno lasciato spazio alla “corruzione Romana”. Tuttavia, ci sono segni che l’antico spirito di Milano sopravvivera’; questo potrebbe gradualmente trasformare gli immigrati in Milanesi e fare in modo che anche Roma ascolti. Cosa cambio’ lo spirito di quelli che vivono a Milano e’ il lavoro, che nessuno puo’ evitare. La domanda di un lavoro ben fatto, a tutti i livelli, forza uomini diversi ad adottare simili stili di vita. La furbizia, gli intrighi ed i brogli amministrativi sono utili altrove; la disonesta’, la prudenza eccessiva e la mancanza di fiducia in se stessi non si adattano bene al ritmo delle macchine, all’enorme quantita’ di esportazioni e al progresso tecnologico. E’ il lavoro che ha fatto i Milanesi cio’ che sono e che un giorno eventualmente riuscira’ a trasformare gli immigrati in Milanesi.” […]
@ida
perdona, ma ti sembra che la Milano descritta in quel particolare momento fosse una milano da amare?
semmai una città quasi nascosta a se stessa, ripiegata in un vortice che non lascia tracce al suo passaggio.
@Juliette
i miei genitori la ricordano come una città feroce. Forse solo perché la ferocia non era nascosta da tonnellate di fard da velina.
In una famiglia schizofrenica come la mia, con un nonno morto in fabbrica a 45 anni – le circostanze furono all’epoca tali da escludere la morte bianca – e l’altro dell’altissima borghesia, questa ferocia è stata avvertita tanto, ma tanto.
Ah signor K., l’ufficio stampa dev’essere in verità romano, ma si capiva che parlavo in generale ;)
@ida
nella fantasia si può essere attratti (malsanamente) anche da un ambiente terribile e tormentato. questo, però, non travalica la consapevolezza di una condizione storica. sono due aspetti distinti. non a caso ho utilizzato il termine “amore” che fa a cazzotti con la storia del momento. perché i corsi della storia, come i sentimenti sono, spesso, così sfumati, indefiniti ed è impossibile — e ancora più malsano — schedarli in griglie-confini. mi sembra che la rassegna di franz, non a caso, non si muova per blocchi ma segua lo scorrere del vivere milanèse così come viene riportano -alla luce- dalla memoria.
@Juliette
come vuoi.
Mi pare però che il corso della storia milanese sia tutto fuorché sfumato e indefinito. Che sia stato colto benissimo mentre era in atto, e che sia infatti oggi una pietra di paragone, e non un semplice stadio del fluire. E che l’amore sia il modo in cui vuoi chiamare – ma tutto è lecito – un altro sentire preciso, la nostalgia.
Ma ripeto, preferirei leggere il resto!
“Erano finiti i tempi della Milano antonioniana disarcionata da se stessa, quella de L’eclisse, una Milano che si spegne malinconicamente la sera, lasciando andare i propri personaggi verso l’oblio, defluire verso l’indistinto”
Mi dispiace per il relatore dell’articolo ma L’Eclisse di Antonioni si svolge interamente a Roma.
Juliette?
guarda che ho capito. Nè ho intenti polemici. Mi limito ad avere un sentire leggermente difforme. Forse un pochino più severo sul “prima”. Il che non toglie che tutto ciò sia scritto bene, e che io aspetti di leggere il resto con curiosità.
Mi scuso con i lettori, è vero che L’Eclisse si svolge totalmente a Roma. Forse le scene girate alla Borsa mi hanno rimandato un ricordo (di qualche anno) completamente sballato, facendomi ripensare alla Borsa di Milano. E’pur vero – ma questo non mi giustifica – che in quel film si respira un’aria di indeterminatezza che si attaglia in qualche modo a MIlano. L’EUR può far pensare alla periferia, o alla zona Fiera.
Ida: penso che la prossima puntata uscirà il 15 luglio. Grazie dell’attenzione e ancora tante scuse ai lettori e commentatori per lo svarione.
ida in realtà mi hai fatto venire un’idea, grazie. ;))
Caro Franz,
ho molto apprezzato il tuo articolo e la sua prosa agile, nervosa. Tuttavia non posso tacerti la mia riflessione sulla “milanesità”.
Questo suo vivere nel nascondimento, non mi fa amare Milano.
Perdona, Franz, sono belli e ricchi i momenti in cui essa si è aperta agli altri umanamente e socialmente: non dimentico che l’Ottocento povero e solidale si chiude con le tragiche cannonate di Bava Beccaris, così come il Novecento futurista si apre con “La città che sale” di Boccioni.
Gli slogans citati erano certo una fervorosa aspettativa degli anni del boom, oltre che un preciso lampo pubblicitario. E’ stata la genialità dei suoi autori ad avvertire una non-primeva chiusura di questo centro polimorfico in vetta alle classifiche italiane delle città da conquistare al consumismo. Erano gli anni (1959) in cui Elio Pagliarani scriveva “La ragazza Carla”, e Milano veniva chiamata “la capitale morale” dell’Italia.
Craxi andava ancora a scuola.
La pubblicità era dunque un amplificatore per dire che Milano esisteva.
Ce n’eravamo già accorti. Contestualmente agli episodi trucidi nelle fabbriche dai sogni alternativi a quelli grigioagnelliani, il caos degli anni Settanta e la bomba di Piazza Fontana, le avanguardie artistiche (sì, lo “spazialismo” del grande Lucio Fontana; “Civiltà delle Macchine” di Sinisgalli).
Poi, la moda: il catapultarsi europeo ed internazionale, l’Himalaya trendy da Camera di Commercio.
Malgrado ciò Milano, come cantava Joe del gruppo “La Crus”, ha continuato, e continua, a pullulare di tristezza.
Preservate questa città anche affascinante, il Duomo, Sant’Ambrogio, la Stazione, la Galleria, i navigli, con trincee difensive che proprio non occorrono. Persino Alda Merini potrebbe dirlo:
“Milano dai vorticosi pensieri / dove le mille allegrie / muoiono piangenti sul Naviglio”. Ma poi ne declama le “mammelle amorose”, come l’auspicio di un rinascere attraverso il generoso nutrimento materno.
Ed oggi che tutto fa tendenza? Tanto stile di vita così perfetto odora d’imperfezione malcelata. Top ten della vita letteraria italiana, i grossi editori si dimenticano che esiste un Centro-Sud prolifico di magnifici autori del Sottosuolo da portare alla luce. Eppure tutto si ferma a mezz’aria: Roma sembra già il caos, e non a torto. La capitale dei parassiti incompetenti, della dispersione di forze energiche, di una politica che non fa rima con etica… Fin qui concordo.
Roma non è amata, ma ha i suoi pregi. E non è l’unica.
Calindri è passato anche di qui: il Cynar e l’amaro Ramazzotti sono un bene comune.
Ecco forse perché, nel tuo immaginario anni Sessanta, hai confuso “L’Eclisse” di Antonioni, girato a Roma, all’EUR, con “La Notte” del medesimo, tutta ambientata a Milano.
Eppure lassù, l’altitudine può inaridire perfino la caligine.
Potrei dire:
ALTITUDINI DEL SE’
QUAGGIU’-
intendendo quella massa di artisti liberi, slegati dalla logica burocratica del perfezionismo remunerativo o dagli agganci editorial-discografici, che non saranno mai o quasi fatti oggetto di eccessive attenzioni. E le poche eccezioni confermano la regola.
Quaggiù invece, sì che ci sarebbero molti benefici “carciofi” illuminati di virtù e talento. Venghino, venghino, lor Signori!
Senza confinarci dentro il logorio di una modernità che forse non è mai nata, come la Seconda Repubblica.
*
Nina Maroccolo
caro biondillo
il bar magenta era già mitico nell’altrettanto mitico ’68. studenti della cattolica e poliziotti giocavano a biliardo insieme. già segno dei tempi.
di antonioni sarebbe stato meglio ricordare la notte, ambientato a milano, in estate.
alle anime belle che credono fosse meglio allora. miracolo a milano.
il problema è sempre confondere un’età biologica, di ciascuno, con un’età storica, di tutti.
basta guardare indietro, basta pensarsi belli allora e squallidi oggi. eravate altrettanto orrendi.
Mille grazie Nina per il tuo intervento.
In pillole: ho accolto il suggerimento e sostituito L’eclisse con La notte.
[…] 8, 2008 by marco I read today some posts about Milan (here, here and here), and my mind came back to one of the most famous ads who celebrated urban life. The scene is in […]
In quegli anni Milano era un circolo persiano perennemente addobato per Natale. Mi ricordo i Pellegrini e i mandarini, assieme nella capanna del presepe. Nel Bar Magenta si fondò Lotta Continua: con quella pubblicità l’Amaro Ramazzoti fece digerire tutti i dissaporti e fece di quel covo di estremisti di sinistra il nucleo del nuovo partito dell’etere. Ma in fondo l’amavo: avevo meno di dieci anni, mi affacciavo al balcone dell’ultimo piano di un palazzone sperso nell’altomilanese e in fondo, ma proprio in fondo, vedevo le lucine delle ciminiere della raffineria di Pero, immersa nel nero. Erano le luci della città.
[…] su La Tribuna. La prima puntata qui. […]