Tè, acque e città
di Antonio Sparzani
Lunga è la memoria dell’acqua al passaggio di una gondola – sciaborda per molti minuti alla luce undivaga di qualche lampione sulle scalette del ponte de san Sebastian. Non inquieta la notte di Venezia, anche sulle fondamenta più dimenticate c’è sempre un palazzo che ti sorride e che puoi accarezzare con lo sguardo. Un’occasione unica per i pensieri che si possono accavallare a piacimento, non c’è computer a portata di mano, non c’è l’ansia delle mail urgenti – l’urgenza sfuma senza fatica – non c’è il sito da curare – ore senza tempo per camminare piano e perdersi un po’.
Perdersi è facile a Venezia: non perdere la strada, è facile mantenere l’orientamento almeno per raggiungere una delle mete più note, el vaga drio a la zente m’ha detto un passante una volta e non ho mai dimenticato l’insegnamento, no, è facile invece perdersi sulle strade nelle quali ti trascina il pensiero quando non lo sorvegli, e a Venezia passa facilmente la voglia di sorvegliarlo.
Il corso sul tè – io sono qui per quello – si svolge a palazzo Foscarini – sestièr Dorsoduro – in una accogliente stanzetta col lavello chiuso in un armadio e un meraviglioso bollitore sempre in funzione al centro di un lungo tavolo rettangolare.
Che bella che è la pianta del tè, sì, anche quella di Fossati, ma io voglio dire quella non metaforica, con le foglie lucide e piccole, la camelia sinensis raffigurata qui sopra, che non è neanche quella della Signora delle camelie (ben sette film sono stati tratti dall’omonimo romanzo di Dumas) che è invece la camelia japonica, che vedete qui sotto,
che dà fiori abbaglianti, ma non deliziosi infusi. Ma certo non starò qui ad annoiarvi con la storia del tè e dei tè del lontano oriente.
Invece vorrei raccontarvi che meraviglia svegliarsi la domenica mattina col sole che bagna senza risparmio le fondamenta, camminare guardando i palazzi della riva opposta illuminati di fresco, come appena venuti su dall’acqua e percorrere ancora tutte le viuzze, no, certo non le viuzze, le calli si dice, o le callette, i sotoporteghi, i rio terà, i campi, i fondachi, le corti sconte (un pensiero reverente a Corto Maltese …) e quanti altri nomi l’immaginazione concreta dei veneziani è riuscita a trovare, per esempio quelle che portano da campo santa Margherita a Rialto, illuminate la sera e sempre brulicanti appunto della zente.
Dal sabato alla domenica la scena cambia completamente, la domenica la maggior parte delle botteghe è chiusa, i veneziani non hanno l’ansia di tenere sempre aperto per vendere di più, evidentemente la domenica preferiscono godersi la meraviglia di città che abitano. Poco prima di arrivare a Rialto c’è un campo che si chiama Campo Cesare Battisti già della Bella Vienna, che fa un po’ malinconia, i nomi cambiano a seconda delle vicende storiche e si perdono così gli echi di un’epoca. Poi penso veramente a tutte le avenida generalissimo Franco che hanno cambiato nome in Spagna e son certo che mi darebbe fastidio vedere ancora il nome dell’odioso dittatore sui muri di una città o di un paese – che peraltro ancora vidi nei tardi anni ottanta nella provincia castigliana profonda – e chissà in Cile quante strade intitolate all’altrettanto odioso dittatore locale degli ultimi decenni del secolo scorso; in fondo questo di Venezia è un buon compromesso, rinnovare il nome, ma ricordando il vecchio che poi non si richiamava a una persona ma a una città della cui bellezza è difficile dubitare.
Questa cosa dei campi è molto piacevole a Venezia, improvvisamente da calli anguste e tortuose sbuchi in piazze grandi di forma irregolare, trapezi storti o strani esagoni, dove tutto è in luce, aperto e chiaro, chiunque possieda un accesso sulla piazza ha aperto un bar e messo fuori i tavolini. È il colore delle tovaglie che distingue i diversi bar, i turisti sono rari ancora e all’ora di cena fuori dai piccoli ristoranti ci sono dei butta-dentro che ti invitano, con quella ferma e non viscida cortesia, buonasera sir, mi fa uno di questi e io voglio dirgli che sarebbe stato assai meglio dirmi buonasera siòr, ma non dico nulla e passo oltre con un sorriso imbarazzato.
Mangio polenta con le seppie, che ai tempi del Lombardo-Veneto austriaco era cibo altamente sconsigliato ai veri patrioti italiani, che dovevano invece – couleur oblige – cibarsi di risi bisi e pomidori, il sacro tricolore, non l’austriacante giallo e nero, per carità.
Venezia è diventata nell’immaginario dei popoli l’archetipo della città sull’acqua, tanto che varie città del mondo sono soprannominate “la Venezia del…” prima tra tutte Amsterdam, quasi ovvio, forse la più simile, anche se con meno presenza di ponti e canali e soprattutto più regolare (con i suoi tre canali concentrici: il canale dei Principi, quello dell’Imperatore e quello dei Signori) della sregolatezza della disposizione veneziana, e poi l’atmosfera di Amsterdam non è quella veneziana, di più austera e nobile tradizione quest’ultima, più aperta e ammiccante la prima. Ma sullo stesso tema si possono poi elencare almeno Stoccolma e San Pietroburgo e Bruges e chissà quante altre.
Perfino in Cina c’è la “Venezia cinese”, Hangzhou, provincia dello Zhejiang, vicino a Shanghai, all’estremità meridionale di un grande canale, è una delle antiche sette capitali del paese; afferma Marco Polo (1254 – 1324) – veneziano doc – che arrivando a Hangzhou seppe che si trattava della più bella ed elegante città del mondo.
Un’altra città che viene in mente a me è l’odierna Kaliningrad, Königsberg ai tempi di Kant, di cui ho già parlato qui per gli enigmi connessi ai suoi sette ponti sulla Pregolja, il Pregel dei tempi di Kant.
Quello che da ultimo vorrei aggiungere è che il topos abbastanza comune, che le prime città sorsero sui fiumi per tutti i vantaggi che ciò comportava non è poi così accertato. L’antropologo e biologo statunitense Jared Diamond, nel suo molto interessante libro tradotto in italiano col titolo Armi, acciaio e malattie (Einaudi 2006) si propone di rispondere alla “domanda di Yali”, la domanda cioè postagli, durante uno dei suoi numerosi viaggi di ricerca sul campo, dal saggio della Nuova Guinea Yali: «Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo [parola generica per indicare tutte le merci e le attrezzature] e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?», cioè la domanda cruciale sulle ragioni dello sviluppo diseguale. Nel capitolo introduttivo, cercando di esaminare sommariamente varie classi di ragioni che sono tradizionalmente portate in proposito, scrive (pp. 10–11):
«C’è un’ altra spiegazione che tira in ballo fattori geografici e climatici: le civiltà, cosi sembra, si sono evolute solo sulle rive di grandi fiumi, in zone dal clima secco, dove 1’agricoltura intensiva può prosperare grazie a sistemi di irrigazione su larga scala, che a loro volta favoriscono la nascita di organizzazioni sociali e burocratiche. Questa idea è sostenuta da un’indubbia verità: i primi stati complessi, i primi imperi e le prime forme di scrittura sono apparsi sulle rive del Tigri, dell’Eufrate e del Nilo. Il controllo delle acque sembra aver giocato un ruolo importante in molte aree di antica civilizzazione, come le valli dell’lndo, del Fiume Giallo e dello Yangtze in Asia, le pianure dell’America centrale e le zone aride costiere del Perù.
Ma gli studi archeologici più accurati mostrano che i sistemi di irrigazione non furono contemporanei alla nascita delle strutture statali, e che anzi fecero la loro comparsa molto dopo: l’organizzazione sociale sembra essere nata per un qualche altro motivo, ed essere stata la causa dell’inizio dei lavori di irrigazione su larga scala. Né sembra che altri segni di civiltà precedenti la strutturazione politica siano in qualche modo legati alle acque dei fiumi: nella Mezzaluna Fertile, ad esempio, i primi villaggi agricoli sorsero nelle zone collinose, non vicino ai fiumi; e passarono 3000 anni prima che qualcosa di simile comparisse nella valle del Nilo. Nel Sudovest degli Stati Uniti i fiumi hanno permesso la nascita di società agricole complesse solo di recente, dopo che molte delle tecniche principali furono importate dal Messico. E infine, sulle rive dei fiumi dell’ Australia sudorientale sono vissute per millenni solo tribù di cacciatori-raccoglitori.»
Vuoi vedere che le donne e gli uomini di quei tempi costruirono le prime città sull’acqua perché ciò pareva loro più bello?
:-O (meraviglia e sorpresa). qui, caro sparz, tiri in ballo una parola grande e grossa: il bello. ce n’è di che dire. però sempre grazie, perché mi chiami a rifletterci su e lo farò con immenso piacere. le camelie, poi …. ;-)
In effetti a Venezia si cammina tanto, ci si perde e si pensa assai.
Tra tutti i termini toponomastici, il mio preferito è rio terà: un vecchio canale, poi interrato e lastricato. La genesi della città lagunare.
Ah, Sparz, magari fosse così!
pezzo molto bello. venezia “fa” questo: ondeggiante e di-vagante, labirintica eppure concreta, razionale, oscura e solare insieme, spinge a viaggi della mente e della penna. l’esordio con san sebastiàn (facoltà di lettere) mi ha intenerito. è la mia città, lo resterà sempre, anche se l’ho tradita.
grazie, antonio sparzani.
cara Tina, se, come proprio mi pare, sei interessata al bello, ti ricordo il pezzo di Lakis Proguidis che avevo tradotto qui.
vivo a venezia da qualche mese… e non posso darti che ragione piena: è fatta per essere bella, infinitamente bella, questa piccola città! non c’è altra spiegazione….. o comunque non la vorrei sentire affatto!
come non amare quelle calli tra l’eleganza di Rialto e lo splendido caos studentesco di campo Santa Margherita?
come hi ragione Lucy… quella spinta ai viaggi della penna!
grazie, Antonio… sono stata felice di leggere queste tue righe!
[…] possono che far pensare al bello di cui accennavo, in un differente contesto, in conclusione del primo post su quest’argomento. Dev’essere che il gusto del bello — che naturalmente è in buona […]