Il mondo di Fiorino: estate
di Antonio Sparzani
(la prima puntata è qui.)
La provincia quell’estate non era poi così polverosa. O lo era forse nel senso che il paesetto dov’era la casa di Giancarlo lo si poteva raggiungere solo in macchina, o con vecchie corriere molto polverose. Ma una volta giunti, il verde arrivava subito a colpire gli occhi e il naso. La casa era ai bordi del paese e aveva un giardino in pieno rigoglio. Non c’erano gli asfodeli, che Fiorino aveva imparato a riconoscere dopo la storia della Paola, ma c’era una festa di rose straordinarie di tanti colori e di tanti profumi che colpirono molto Fiorino.
Era venuto, per quel lungo fine settimana, anche un altro amico di scuola e del collegio, Ermanno. Non era alto, aveva il naso aquilino, era leggermente strabico, e aveva la non comune abilità di aumentare a comando il proprio strabismo. Negli ultimi tempi erano stati spesso assieme, Giancarlo, Ermanno e Fiorino.
Era, e sarebbe stata, una caratteristica della vita di relazione di Fiorino, quella di appartenere a terzetti; tre sembrava essere un bel numero, adatto a una buona relazione amicale, consentiva dinamiche varie, senza dar luogo a eccessive gelosie.
“Tre, soltanto tre – canticchiava ogni tanto il padre di Fiorino, così, inaspettatamente – sono le cose che piacciono a me” che però proseguiva “ma, una ce n’è, una ce n’è che ha da valer per tre” e Fiorino non capiva mai che cosa fosse questa cosa privilegiata.
E poi la mamma di Fiorino aveva fatto a tempo a raccontargli la trama di qualche grande opera della letteratura, che le era sembrata particolarmente adatta alla fantasia del figlio, e a Fiorino era rimasta impressa la storia di Pene d’amor perdute, soprattutto per quel titolo, cosa saranno mai le pene d’amor perdute, pensava Fiorino, come si fa a perdere una pena d’amore, che già Fiorino stentava allora a immaginarsi. Eppure il titolo suonava così bene, pene d’amor perdute, un dolce settenario, dal tono lontano e misterioso. Però tutta la storia cominciava con quei tre amici intimi del re che facevano lo strano voto di studiare per tre anni senza mai divertirsi e senza mai pensare ad altro; ma poi erano arrivate tre donzelle…, e comunque il tre tornava fuori.
Tre dunque erano ora, com’erano stati con Ernesto e con Susa, e stavolta un anno era passato, c’era qualcosa in più rispetto a quell’altro primo terzetto. C’era come una componente fisica, un’attenzione al proprio corpo e al corpo degli altri che prometteva emozioni nuove.
Si trovarono il venerdì pomeriggio alla casa di Giancarlo, che viveva con i genitori e con tre sorelle. La Zena, più piccola e con un bel sorriso, la Daria, la maggiore, bella molto, agli occhi di quegli adolescenti, e infine la Carlina, con il segno dell’acerbo sul viso, dai lineamenti ancora duri, lampeggianti da lontano, pochi sorrisi, solo qualche gesto. Si stava come in famiglia, a casa di Giancarlo, i genitori erano bravi a far sentire gli amici del figlio come figli anche loro, senza d’altra parte interferire nelle loro faccende e lasciandoli liberi come l’aria. Era bello perché di giorno giocavano e chiacchieravano tutti assieme, anche con qualcuna delle sorelle, mentre la sera, quando ci si ritirava a dormire, c’era l’intimità di loro tre. Con qualche brivido e qualche timore, da parte di Fiorino, che tendeva sempre ad avvertirsi come più timido degli altri, ad osare meno, almeno esternamente. Come ad esempio quella sera, non la prima che fu in verità una mezza nottata di confidenze e pensieri, ma la seconda, dopo che l’intimità era stata ampiamente rinsaldata, nella quale apparve qualche sfida più ardita, tipo mostrarselo a vicenda, quello, l’innominato, per il quale non c’era ancora un nome ben stabilito, farselo vedere appena, così, non per confronti, ma per il gesto in sé, per il bel gesto fuori norma. Perché così era Giancarlo, che aveva il ruolo dominante nel terzetto, per lui era il gesto ardito che contava, lo sprezzo per le convenzioni, la battuta, elegante ma in dialetto, per risolvere la discussione.
Questa del dialetto era un’altra faccenda difficile per Fiorino, che certo lo capiva, per aver sempre abitato, almeno da quando aveva tre anni, a San Bruno, ma non lo parlava, o se si azzardava a farlo, faceva come niente errori ridicoli; perché un errore in italiano, o in latino, si scusa subito, ma un errore in dialetto non è tollerabile, e del ridicolo è il colmo. E molti dei suoi amici il dialetto lo parlavano con naturalezza, perché in casa loro lo si usava correntemente. Nella casa di Fiorino invece ci si era sforzati di non parlarlo, anche perché il padre di Fiorino era veneto, e non lombardo, e poi il ragazzino doveva venir su con la lingua italiana, non con il dialetto, perbacco.
Fiorino, pur vergognandosi della propria vergogna, non si adattò a quella proposta esibizione e guardò con difficoltà a quelle degli amici. Questi risero un po’, ma ebbero il buon gusto di non insistere, Fiorino ebbe la sensazione che l’amicizia contasse ben più che la disponibilità a gesti sfrontati e dormì tranquillo; una delle prime volte che dormiva fuori di casa, affidato ad un’altra famiglia, con altre abitudini, altri interessi, altri pensieri. Si addormentò pensando al domani, c’era ancora un intero giorno di quella deliziosa e un po’ inaspettata vacanza, si poteva fare qualsiasi cosa.
E infatti i tre andarono al fiume. Non lontano dal paesetto in cui abitava Giancarlo, correva l’Oglio; correva per la campagna, con qualche ansa e qualche rapida tra il verde dell’estate. C’erano alberi a riparare dagli sguardi e c’era l’erba sul greto che rendeva piacevole il contatto dei piedi con la terra. Si trattava di provare a fare il bagno in quella poca acqua, poca e tuttavia corrente e con qualche pozza in cui sembrava ci si potesse inabissare. Fiorino non aveva portato costume da bagno da casa, perché alla presenza di quel corso d’acqua non aveva pensato, e quindi toccava fare il bagno in mutande, con quell’ombra di imbarazzo che Fiorino ben conosceva, e forse alimentava o almeno non rifuggiva; aveva in verità la confusa sensazione che Giancarlo lo amasse anche per questo, perché riconosceva un altro modo di essere, di cui avvertiva almeno una sfumatura di delicatezza. E comunque Fiorino aveva voglia del contatto con l’acqua, sapeva che avrebbe avuto una spiacevole sensazione di freddo, non era stoico, lui, ma sapeva anche che poi gli sarebbe piaciuto molto. Ma quella volta vi fu qualcosa in più del conosciuto piacere dell’acqua fresca, perché, non appena Fiorino si immerse nella corrente e provò a nuotare, staccando i piedi dal fondo, si sentì trascinare via, come da una forza inaspettata. Era la prima volta che Fiorino sperimentava una sensazione che lo inebriava e lo portava fuori di sé, sensazione che avrebbe poi provato qualche altra rara volta nella sua vita futura; era l’unico vero momento in cui Fiorino intendeva per un attimo di essere un pezzo di natura e non fuori di essa; era l’abbandono temibile ma appagante a qualche cosa di incontrollato che lo portava con sé. Era un attimo, un baleno invadente ed esigente che dura un tempo oggettivo così piccolo, ma che occupa un tempo mentale enorme. Un momento solitario e incomunicabile, nel quale gli amici erano spariti e Fiorino aveva per la prima volta la percezione di una vera personale identità.
Era capitato qualche settimana prima, subito dopo la fine della scuola, che Fiorino passeggiasse da solo in riva al lago a San Bruno, vicino a quel ponte sul canale
che metteva nella darsena del paese; era il crepuscolo, e Fiorino pensava per conto suo trasognato guardando il lago, ma guardando insieme anche il paese e le persone e le cose che lo circondavano, e lì si era trovato preda di una sensazione simile, non tanto di venir preso e trascinato via quanto piuttosto di appartenere ad un flusso complessivo, di cui si sentiva una piccola ma esistente parte. E questa percezione l’aveva comunicata, per quanto fosse possibile con le limitate e ingannevoli parole che aveva a disposizione, a Giancarlo; il quale non aveva riso, qualcosa aveva colto e aveva cercato anche di mettere in comune quella sensazione con Ermanno, non appena ci si era visti tutti e tre.
Giancarlo, nel linguaggio dell’intimità dei tre, si chiamava John, era il John nome di battaglia e di eroismi, con quel sapore misto di Far West e di capitano dei mille mari. Ermanno era Sam, mentre Fiorino non aveva un vero e proprio appellativo fantastico, se non, per un breve tempo, Jim, che però non suonava benissimo e venne di fatto poco usato. Si cominciava talvolta a parlare di ragazze, Giancarlo spiegava delle tecniche e gli altri si chiedevano in cuor loro se lui le avesse davvero sperimentate, anche se non importava veramente, la bellezza era ascoltare John raccontare quegli episodi, sempre con quel tono a metà tra la burla e la sicurezza di chi ha già navigato. Era bello stare sulla riva dell’Oglio al fresco dell’erba e sentirlo scorrere leggero, come se fosse lui a lasciar passare un tempo lieve e senza ombre; solo qualche vibrazione trattenuta, gesti sottintesi, parole svagate.
Tornarono a casa adagio a piccoli passi; i genitori di Giancarlo, la madre gioviale e aperta, il padre, leggermente zoppo, denso di burbera generosità, li accolsero con la solita, quasi scontata, bonomia, e cenarono volentieri. Dopocena era prevista una piccola festa nell’aia della casa, cui partecipò qualche altro amico dei ragazzi e soprattutto le sorelle di Giancarlo. Anche se la Daria piaceva a Fiorino, che pur ne avvertiva l’irraggiungibilità anagrafica, Giancarlo cercava di mettergli vicino la Carlina, che era quella con l’età più vicina a quella di Fiorino. Tra giochi e penitenze, arrivò il momento in cui bisognava dare un bacio alla propria compagna e a Fiorino toccò per l’appunto di dover baciare la Carlina. Lì, in presenza di tutti, sulla bocca. Quel viso acerbo lo lasciava interdetto e imbarazzato, oltre a non sapere esattamente come si faceva un’operazione del genere, Ma il suo amico John lo spingeva e Fiorino si buttò – si fa per dire, naturalmente – e fu assai stupito della facilità del gesto, e del sapore di quelle piccole rigide labbra. Non vi fu piacere in quel gesto, solo l’emozione del nuovo. Fiorino guardava la Carlina col rimorso che non fosse stato in alcun modo preparato, che non ci fosse stato tempo di dirsi qualcosa prima, ma così era: non solo la Carlina era acerba.
La sera si prolungava e trapassava ormai nella notte sull’aia; si cantò un po’, ma non successe più nulla che producesse una risonanza nel cuore di Fiorino: egli in fondo attendeva solo l’intimità della notte nella stanzetta con gli amici, quando ci si sarebbe potuti chiedere, ma allora la Carlina ti piace, oppure quando Giancarlo avrebbe raccontato dei suoi gesti trattenuti verso la sorella più grande, la Daria, l’irraggiungibile e fascinosa, grande e lontana e tuttavia desiderata e presente nelle fantasie dei più giovani. Uno squarcio su un altro mondo rappresentava quello, per Fiorino; forse, così egli pensava, un pezzo di vita vera, come doveva essere al di fuori dell’atmosfera ovattata delle consuetudini di San Bruno, tante nuove persone, gente più ricca dei suoi, l’invito per agosto nella loro casa in collina, un’automobile di proprietà. E poi Giancarlo che insegnava e interagiva diversamente dai sambrunesi, sempre un po’ scuri e trasandati.
La notte passò con i grilli che cantavano subito fuori dalla finestra e Ermanno che parlava nel sonno.
La mattina si doveva far colazione e poi lo zio di Fiorino sarebbe venuto a prenderlo in macchina per riportarlo a casa. La Carlina si venne a sedere per il caffellatte vicino a Fiorino e ogni tanto lo guardava da sotto le ciglia ancora irregolari, ma con gli occhi tranquilli. Anche Fiorino era più tranquillo, forse perché ineluttabilmente se ne sarebbe andato e quindi non c’era più alcuna prospettiva di tremori, ma forse anche perché la notte aveva sedimentato quel po’ di dolcezza che era passata nella sera precedente. Fiorino fu affettuoso con la Carlina, si diedero un piccolo abbraccio e si salutarono. Con John si guardarono invece negli occhi a lungo, e John non abbassava lo sguardo e il sorriso complici. Erano quelli i momenti che Fiorino voleva afferrare e mantenere vivi nella memoria, perché capiva che erano quelli i momenti nei quali qualcosa di vero accadeva, qualche cosa di forte di cui bisognava conservare gelosamente la sensazione, per poterla rivivere nella memoria in qualsiasi momento futuro. Ci vediamo dopo l’estate si dissero, quando Giancarlo sarebbe tornato al collegio.
Che strappo di viscere erano per Fiorino quei momenti di allontanamento imposto dalle circostanze della vita, momenti nei quali cominciava a capire sulla sua pelle che i vincoli esterni condizionavano duramente i suoi desideri più vitali.
Bellissimo. Il lettore prova dolcezza. Gli occhi sono bagnati di liquidità verdissima. E’ una manera di scrivere sul sentimento di felicità: un corpo abbandonato all’acqua o al primo bacio.
Bello (anche la puntata precedente). Bello il modo pacato ma aderente alle cose di questi racconti, bella l’età in cui tutto è avventura.
grazie Veronique e grazie Giorgio, sì, il tentativo è quello di scrivere andando dietro, insieme, ai pensieri e ai piccoli fatti di questa adolescenza lontana e inquieta.