Come sono finita dove sono finita
di Stefano Zangrando
Bazzicando i siti letterari italiani negli ultimi anni era facile imbattersi in scrittori o scrittrici che andavano saggiando il cosiddetto blog come possibile nuova forma letteraria. Alcuni hanno poi dato consistenza materiale a una parte dei propri tentativi pubblicandola in volume, e rinunciando con ciò al nickname, non prima di averla adattata al medium differente. Si pensi ad esempio al Francesco Pecoraro di Questa e altre preistorie, apparso nel 2008 nella collana «fuoriformato» curata da Andrea Cortellessa per Le Lettere, o al Gherardo Bortolotti di Tecniche di basso livello (Lavieri 2009), quest’ultimo assai audace nel costringere entro limiti cartacei una ricerca sui linguaggi che nella struttura illimitata della pagina on line sortiva impressioni anche molto diverse. Pecoraro, dal canto suo, conservava un andamento più convenzionale, ma non meno libero e tanto più personale, «così denunciando l’insufficienza delle forme tradizionali di scrittura, o la precedente mancanza di forme adatte a una parte latente della necessità espressiva». Così scriveva, nella prefazione al libro, Silvia Bortoli, lei stessa partecipe, nello stesso periodo, di questa nebulosa sperimentale che attorniava la costellazione dei blog letterari.
Adesso tocca a lei: premiata traduttrice dal tedesco e raffinata scrittrice aldiquà dello schermo – i suoi ultimi volumi narrativi, L’insperienza e Percezioni variabili, erano apparsi per Manni rispettivamente nel 2003 e nel 2005 – Silvia Bortoli era nota agli internauti con il nome di Alcor. Lo pseudonimo appare solo in due dei sessantasei cammei che costituiscono ora la sua trasmigrazione cartacea, Come sono finita dove sono finita (Cicero, pp. 144, € 14), ma è quanto basta, assieme agli hapax «categoria» e «post», a serbare una traccia minima e pur significativa della loro destinazione originaria, come dire: nulla da nascondere, ma qui siamo altrove e vigono altre regole.
Ciò che balza all’occhio, dei testi così riorganizzati e riveduti, è come giungono a comporre una forma rigorosa e compiuta, per quanto ibrida ed eterogenea. L’esito complessivo è l’autoritratto a mosaico di una personalità estrovertita e singolarmente esposta, ma mai davvero collimante con l’autrice in carne e ossa e che trae linfa, invece, dalla sua capacità di tradurre ogni materia in stile, persino gli aspetti più banali e caduchi dell’esistenza quotidiana, rendendo il tutto miracolosamente interessante e spesso divertente. Il registro prevalente, infatti, è quello comico, sia che si tratti di trarre forza narrativa dalle proprie debolezze e idiosincrasie, come nell’apprensione per un caro che non dà notizie di sé o nell’interminabile trattativa con la sarta per un abito che non vuole calzare, sia nel ritrarre personaggi macchiettistici ma non solo, come l’amico sano e savio ma intimamente ossessionato dalla morte, o Doggy, l’amica nevrotica, che «prende sempre un libro, per prudenza, se qualcuno comincia a raccontarle qualcosa, e fa gesti, per dire che tanto ha capito come va a finire». Lo stesso effetto, magari appena smorzato da un’attitudine più comprensiva e umoristica, può nascere da una fila alla cassa di un supermercato, dal racconto di un sogno inspiegabile o dal breve resoconto dell’incontro con uno zampognaro sulla soglia di casa. Più raccolti, ma altrettanto lucidi e pervasi della stessa curiositas, sono i brani in cui l’autrice riflette sul proprio cosmopolitismo fino a riconoscerne l’intima fragilità: «ho una coscienza biologica di specie che mi spinge a sentirmi cosmopolita e deterritorializzata quando tutto va bene e niente mi minaccia, ma che mi spinge ad alzare barriere non appena il pericolo si avvicina […] In fondo l’unica differenza tra me e un teppista armato di spranga è che in me tutto questo resta potenziale, un fremito della pelle, che devo fare molta attenzione a cogliere, coperto com’è dal lavoro della riflessione, della politica, della cultura, dell’apertura».
Non mancano bozzetti su animali (topi), insetti (un bombo), uccelli (balestrucci) o pesci (carpe), come anche su fiori (giacinti) e vegetali commestibili (verze o «verzi», a seconda dell’origine commerciale o contadina), e poi boutade sulla tecnologia e osservazioni casuali di persone, insomma un vero e proprio campionario di nugae, magari inframmezzate da brevi cronache di viaggio o considerazioni sull’amore e l’amicizia. Il fatto è che l’incredibile varietà di temi, figure e riflessioni trattate in appena centotrenta pagine, e con una predominanza apparente dell’occasionale e dell’aneddotico, è sorretta da una saggezza e da una cultura accuratamente dissimulate e ironizzate. Anche le sporadiche allusioni a una qualche poetica si possono scovare soltanto nelle notazioni critiche sparse qua e là nel testo, oppure infilate in un botta e risposta telefonico con Doggy a proposito dei diari della protagonista.
Il tessuto complessivo è altresì rafforzato dal leit motiv del confronto tra presente e passato, che emerge in primo luogo nei ricordi d’infanzia e giovinezza con cui l’autrice, antilirica e immaginosa, cerca di dare forma a «un personale museo dell’Italia che c’era e non c’è più», un’archeologia dell’altro ieri che non dimentica la fame e la penuria e che declina in forme private e contingenti la partecipazione alla storia collettiva, sdrammatizzandola. Di qui il movimento del tempo si manifesta nel rapporto con e sugli oggetti, la loro inesorabile durata e la loro utilità a termine, per poi trarre ispirazione ulteriore dal trasloco di Alcor/Bortoli nel «borgo non natio», ossia l’evento “traumatico” che costituisce forse l’unico, esile filo narrativo del volume. Così l’impressione finale è quella di un testo saturo di tempo, anzi persino consacrato alla temporalità – così come lo era anche, in altro modo, nel suo ambiente originario, quel web che induce a leggere una sola volta e dimenticare presto. Ma è proprio qui che si dà lo scarto: non tanto il formato e la materialità del libro, ma lo stile e lo spessore individuale dell’autore sono i veri agenti conservanti, gli enzimi della durata e del valore che permettono di riconoscere, in rete come in letteratura, chi ha davvero qualcosa da dire.
(Questa recensione è apparsa con il titolo Autoritratto di blogger in forma di mosaico sul manifesto del 22 novembre 2011.)
Sicuramente il blog ha trasformato il nostro modo di rapportarci alla scrittura e alla pubblicazione. Si scrive di più. Si scrive meglio o si scrive peggio?
Non sarà che togliamo tempo alla lettura dei classici?
Curioso come l’attacco di questo articolo sembri contenere un implicito: “Se uno tiene un blog, allora usa un nomignolo”.
Il che non è (obbligatorio).
Fin dai primi esempi (mi limito all’Italia, e a persone certificabili come “scrittori”) di opere nate come diari in rete e poi finite, debitamente trasformate, su carta (il “Diario di una blogger” (Marsilio) di Francesca Mazzuccato è del 2003, Giuseppe Caliceti comincia a pubblicare in rete “Pubblico / Privato” il 14 aprile del 2000 e nel 2002 esce (per Sironi) il libro.
non capisco tutto questo (costante) rumore per nulla. non mi riferisco ad alcor e tantomeno a pecoraro, che conosco (e apprezzo assai) solo in rete e – attention! – soprattutto su facebook.
ma dire, o casomai anche semplicemente pensare e basta, che la rete serve a democraticizzare l’accesso al mondo dei lavoratori della conoscenza, non sarebbe più onesto e chiaro?
e poi.
il parlare per frammenti richiede una onestà mimetica che a mio avviso, a libro non letto, alcor non ha.
e una densità di pensiero che, parimenti a libro non letto, pecoraro non ha.
qui il problema resta. ed è valutare e auto-valutare cosa significhiamo con “avere qualcosa da dire”.
buon natale scrittori.
In questa recensione ho usato deliberatamente categorie o espressioni che all’orecchio di molti sarebbero suonate retrò o persino reazionarie – anche per uno o più degli autori menzionati, ne sono certo – come «stile» o «avere qualcosa da dire», perché mi sentivo altrettanto anacronistico nel voler valorizzare un libro non per il suo carattere sperimentale in sé – di fare un libro dalla propria esperienza “blogica” sono capaci in molti, e certi pionieri non sono mancati, come evidenzia Mozzi –, ma per la capacità dell’autore di tradurre l’esperimento in una forma, l’avanscoperta in presidio estetico, la scrittura in «stile», appunto. Non capisco bene cosa intenda l’ultimo commento con «tanto rumore per nulla», non mi pare che qui si parli di «democraticizzazione», semmai del processo inverso; e comunque non è mio costume recensire un libro se dalla sua lettura non traggo l’impressione che possano avere una certa durata “sovraeditoriale” e uno spessore, come dire, “sovrademocratico”.
Ripeto in forma di domanda esplicita. Come mai, Stefano, l’attacco del tuo articolo contiene – se non mi sbaglio – un implicito del tipo: “Se uno tiene un blog, allora usa un nomignolo”?
con molto rumore per nulla intendo che le seguenti parole, cioè più o meno tutto quello che hai scritto, pur non essendo sempre dotate di senso compiuto sono: a) poco condivisibili perché il tuo teorema non è dimostrato da nessuna parte; b) poco condivisibili perché il tuo teorema, quand’anche dimostrabile, non è né vero né tantomeno originale, anzi diciamo che è piuttosto stantio e parrocchiale.
con democraticizzazione dell’accesso al mondo da parte degli scrittori intendo che il tuo teorema (che è che vi era una non meglio specificata “insufficienza delle forme tradizionali di scrittura”) è una cazzata.
quello che vi era e tuttora vi è è una incapacità selettiva della macchina editoriale, che l’esistenza della rete e, in rete, di luoghi come questi, in minima parte sana.
“consistenza materiale”
“non prima di averla adattata al medium differente”
“quest’ultimo assai audace nel costringere entro limiti cartacei una ricerca sui linguaggi che nella struttura illimitata della pagina on line sortiva impressioni anche molto diverse”
“conservava un andamento più convenzionale, ma non meno libero e tanto più personale”
«così denunciando l’insufficienza delle forme tradizionali di scrittura, o la precedente mancanza di forme adatte a una parte latente della necessità espressiva»
ma è quanto basta, assieme agli hapax «categoria» e «post», a serbare una traccia minima e pur significativa della loro destinazione originaria, come dire: nulla da nascondere, ma qui siamo altrove e vigono altre regole.
“l’autoritratto a mosaico di una personalità estrovertita e singolarmente esposta, ma mai davvero collimante con l’autrice in carne e ossa e che trae linfa, invece, dalla sua capacità di tradurre ogni materia in stile, persino gli aspetti più banali e caduchi dell’esistenza quotidiana, rendendo il tutto miracolosamente interessante e spesso divertente.”
“trarre forza narrativa dalle proprie debolezze e idiosincrasie”
“sia nel ritrarre personaggi macchiettistici ma non solo, come l’amico sano e savio ma intimamente ossessionato dalla morte”
“Lo stesso effetto, magari appena smorzato da un’attitudine più comprensiva e umoristica (…)”
“Più raccolti, ma altrettanto lucidi e pervasi della stessa curiositas, sono i brani in cui l’autrice riflette sul proprio cosmopolitismo fino a riconoscerne l’intima fragilità.”
“Non mancano (…) e poi boutade sulla tecnologia e osservazioni casuali di persone, insomma un vero e proprio campionario di nugae, magari inframmezzate da brevi cronache di viaggio o considerazioni sull’amore e l’amicizia.”
“Il fatto è che l’incredibile varietà di temi, figure e riflessioni trattate in appena centotrenta pagine, e con una predominanza apparente dell’occasionale e dell’aneddotico, è sorretta da una saggezza e da una cultura accuratamente dissimulate e ironizzate. Anche le sporadiche allusioni a una qualche poetica si possono scovare soltanto nelle notazioni critiche sparse qua e là nel testo, oppure infilate in un botta e risposta telefonico con Doggy a proposito dei diari della protagonista.”
“Il tessuto complessivo è altresì rafforzato dal leit motiv del confronto tra presente e passato, che emerge in primo luogo nei ricordi d’infanzia e giovinezza (…)
un’archeologia dell’altro ieri che non dimentica la fame e la penuria e che declina in forme private e contingenti la partecipazione alla storia collettiva, sdrammatizzandola. Di qui il movimento del tempo si manifesta nel rapporto con e sugli oggetti, la loro inesorabile durata (…)
ossia l’evento “traumatico” che costituisce forse l’unico, esile filo narrativo del volume.”
“Così l’impressione finale è quella di un testo saturo di tempo, anzi persino consacrato alla temporalità – così come lo era anche, in altro modo, nel suo ambiente originario, quel web che induce a leggere una sola volta e dimenticare presto. Ma è proprio qui che si dà lo scarto: non tanto il formato e la materialità del libro, ma lo stile e lo spessore individuale dell’autore sono i veri agenti conservanti, gli enzimi della durata e del valore che permettono di riconoscere, in rete come in letteratura, chi ha davvero qualcosa da dire.”
Giulio, la mia approssimazione, o falsificazione se preferisci, deriva probabilmente al fatto che nella parte introduttiva della recensione avevo già in mente gli autori che avrei portato come primi esempi, e cioè Bortolotti e Pecoraro, i quali nei loro blog avevano, o hanno, uno pseudonimo. Un difetto di verità, insomma, dovuto al prevalere di un’esigenza compositiva.
@ temptative
questo: «il tuo teorema (che è che vi era una non meglio specificata “insufficienza delle forme tradizionali di scrittura”) è una cazzata»
non è un teorema di Zangrando [forse non ti sei accorto che lo cita tra virgolette]; se proprio vogliamo chiamarlo teorema, è un mio teorema. Dunque una mia «cazzata».
Grazie alcor, ma non servirà a nulla: temptative saprà dimostrare con rinnovata dovizia di citazioni che la mia recensione fa proprio il tuo «teorema» e quindi è una «cazzata», per di più stantia e parrocchiale.
Era solo perché mi piace rivendicare la legittima proprietà delle cazzate, mettere i puntini sulla i della Ur-cazzata:–)
homeland e bored to death,altro che polvere…
sì l’avevo notato. ma è il teorema del pezzo, anche se è una tua citazione.
oppure non ho capito il pezzo.
se invece l’ho capito, tutto quel che dice zangrando significa questa cosa.
(torno subito)
zangrando comunque le citazioni le ho finite, potrei anche dedicarmi allo smontaggio di esse parola per parola, e ti assicuro che sarebbe assai divertente, ma mi pare un po’ eccessivo.
farò un’altra cosa, leggerò il libro di silvia*, così vedo cosa ci trovo. poi casomai te lo faccio sapere :-)
* perché a me piace come scrive, lei.
temptative, grazie di risparmiarmi: conosco i limiti inconfessabili della mia scrittura pubblicistica, essere schernito pubblicamente da chi ne sa più di me sarebbe stata un’umiliazione intollerabile.
prego, siamo anche sotto le feste.
non ti perdonerò altresì la palese assenza di curiosità riguardo al mio punto di vista, alla pars construens del mio pensiero, diciamo.
È che preferirei essere messo di fronte alla miseria delle mie parole privatamente, se possibile con intelligenza, che essere «schernito pubblicamente» (mi cito) e senza argomentazioni da chi corazza il proprio senso di superiorità con un nickname. Se non altro la recensione è comunque riuscita nel suo obiettivo, se è vero che il libro lo leggerai anche tu. Con molte scuse ad Alcor e NI per la scaramuccia in forma di thread.
dio come sei serio. sono solo un po’ irruente. volendo riesco anche ad esprimermi in modo più urbano e articolato, ma poi la cosa si fa noiosa. diciamo che sono un po’ impressionistica nel commento.
ah, non ti scusare che qui è capitato di peggio, se fai così fa un po’ stantio e parrocchiale.