Incontinental Jazz: Antonio Gramsci

Gramsci e il jazz

di Gigi (Luigi) Spina

 [Questo articolo, apparso in Belfagor 44/4, 1989, pp. 450-454, è stato accolto positivamente da studiosi e storici del jazz. Cito in particolare: Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia. Dalle origini alle grandi orchestre (2004); Franco Bergoglio, Jazz. Appunti e note del secolo breve (2008); Claudio Loi, Sardinia Hot Jazz (2011). Per questo, grazie a Francesco Forlani e con l’autorizzazione di Carlo Ferdinando Russo, direttore di Belfagor, lo ripubblico con piacere su Nazione Indiana. G.S.]

 

«Il buddismo non è un’idolatria»: è questa la seconda osservazione che Gramsci sottopone a quel tale «evangelista o metodista o presbiteriano», durante una «piccola discussione ‘carceraria’ svoltasi a pezzi e bocconi», di cui riferisce alla cognata Tania, per farle «passare il tempo», nella lettera del 27 febbraio 1928.

L’interlocutore di Gramsci, preoccupato (anzi, «indignato») per il pericolo «di un innesto dell’idolatria asiatica nel ceppo del cristianesimo europeo», viene facilmente cacciato «in un ginepraio di idee, senza uscita per lui» da due argomentate osservazioni, la seconda delle quali si apre, appunto, con la netta affermazione riportata all’inizio. Di questo, e dei riflessi probabili della cultura taoista sulla concezione dell’azione di Gramsci, ha scritto Giangiorgio Pasqualotto in «Belfagor» dello scorso anno.

La lettera citata offre, però, un’ulteriore, e forse insolita, materia d’interesse. Proseguiamone la lettura, partendo proprio da quella affermazione:

Da questo punto di vista, se un pericolo c’è, è costituito piuttosto dalla musica e dalla danza importata in Europa dai negri. Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l’avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato delle jazz-bands, rimangano senza risultati ideologici; a) si tratta di un fenomeno enormemente diffuso, che tocca milioni e milioni di persone, specialmente giovani; b) si tratta di impressioni molto energiche e violente, cioè che lasciano tracce profonde e durature; c) si tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel linguaggio più universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente comunica immagini e impressioni totali di una civiltà non solo estranea alla nostra, ma certamente meno complessa di quella asiatica, primitiva ed elementare, cioè facilmente assimilabile e generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il  mondo psichico. Insomma il povero evangelista fu convinto che, mentre aveva paura di diventare un asiatico, in realtà egli, senza accorgersene, stava diventando un negro e che tale processo era terribilmente avanzato, almeno fino alla fase di meticcio. Non so quali risultati sono stati ottenuti: penso però che non sia più capace di rinunziare al caffé con contorno di jazz e che d’ora innanzi si guarderà più attentamente allo specchio per sorprendere i pigmenti di colore nel suo sangue. (A. Gramsci, Lettere dal carcere [= L], Torino 1965, pp. 179-180).

 

Questa non  superficiale analisi gramsciana dei risvolti del fenomeno jazzistico al suo apparire in Europa è, forse, poco nota, o frequentata; in ogni caso, non è isolata. Qualche mese prima, nella lettera all’amico Berti dell’8 agosto 1927, nell’esprimere «la grande delusione intellettuale» che gli aveva procurato la lettura del «tanto strombazzato libro di Henri Massis Défense de l’Occident» (Sul contenuto del libro, di stampo nazionalista e fortemente eurocentrico, Gramsci ritorna in una pagina dei Quaderni (VIII, c. 73 = Note sul Machiavelli, Torino 1966, p. 77).) Gramsci commentava:

 

Ciò che mi fa ridere è il fatto che questo egregio Massis, il quale ha una benedetta paura che l’ideologia asiatica di Tagore e Ghandi non distrugga il razionalismo cattolico francese, non s’accorge che Parigi è diventata una mezza colonia dell’intellettualismo senegalese e che in Francia si moltiplica il numero dei meticci. Si potrebbe, per ridere, sostenere che se la Germania è l’estrema propaggine dell’asiatismo ideologico, la Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e che il jazz-band è la prima molecola di una nuova civiltà eurafricana! (L, p. 112).

 

Come si vede, la modalità argomentativi, nelle due lettere, è la stessa: anche dal punto di vista della struttura epistolare: si parte dall’idea altrui (dell’evangelista, di Massis) di pericoli circa l’influenza della cultura asiatica, di cui si riferisce al destinatario della lettera; quest’ultimo viene fatto, altresì, partecipe dello stesso tipo di obiezione (non dall’Asia, ma dall’Africa viene, semmai, il pericolo), rivolta, in un caso, direttamente (all’evangelista), nell’altro quasi attraverso un immaginario contraddittorio (questo egregio Massis).

Non manca, inoltre, ad accomunare i due brani, ed è un aspetto importante, un tono fra l’ironico e il divertito, talvolta esplicitamente ‘comunicato’: «per farti passare il tempo», «cacciarlo in un ginepraio di idee», «il povero evangelista», fino alla conclusione della stessa lettera a Tania, con l’immagine del pover’uomo che si guarda allo specchio tentando di cogliere le tracce della sua incipiente negritudine[1]. Allo stesso modo si osservino, nella lettera al Berti, le espressioni: «ciò che mi fa ridere … si potrebbe, per ridere … l’Africa tenebrosa» ecc.

Il tono leggero con cui Gramsci riferisce, in entrambi i casi, temi di riflessione che leggeri non sono, cela, a mio avviso, una certa cautela, se non vero e proprio imbarazzo, nell’affrontare argomenti intrinsecamente scabrosi. Si può cogliere nelle argomentazioni gramsciane quello che forse fu storicamente, negli intellettuali di una certa formazione politica e ideologica, l’impatto con nuove forme artistiche, in questo caso la musica nera americana, colta soprattutto nella sua ascendenza africana; forme artistiche che, mentre si presentavano come prodotti rispettabili di una cultura altra, ‘estranea’, da non censurare quindi razzisticamente[2], pur tuttavia, proprio per la loro ampia, e forse inaspettata, diffusione tra vari strati, specialmente di borghesia colta, mostravano l’aspetto pericoloso della ‘evasione’, della ‘irrazionalità’, terreni sui quali abbastanza tardi il movimento operaio avrebbe espresso una visione equilibrata e aperta.

Non volendosi, naturalmente, retrodatare all’epoca e alla coscienza gramsciane fenomeni più recenti, basterà notare la diversa precisione ‘geografica’ dei contesti epistolari per ricavarne sicuri elementi storici.

Nella lettera al Berti, Gramsci è molto più dettagliato nell’individuare l’area delle prime influenze afro-americane sui gusti musicali (e  non solo) europei; nella lettera a Tania, invece, il ragionamento è di più ampio quadro, generalizzante, teso com’è al tentativo di cogliere i dati di fondo, e la ‘pericolosità’ del fenomeno.

In primo piano è la Francia, influenzata dall’intellettualità delle colonie[3], quella Francia che, insieme all’Inghilterra, costituisce, nel secondo decennio del nostro secolo, una delle prime «piccole teste di ponte» del jazz in Europa[4]. In questa prima fase dell’espansione della musica nera americana nel continente europeo, il ruolo di punta che svolgono le jazz bands si esprime soprattutto nella stretta connessione della performance musicale col ballo ritmato[5]. Parigi è una delle capitali europee in cui si ascoltano le prime orchestre di jazz. Forse più che in altre grandi metropoli del continente europeo, il terreno è fertile per un incontro, un innesto culturale che avrà duraturi riflessi anche in altri settori dell’attività artistica[6].

Mentre, dunque, Gramsci identifica il luogo dove maggiormente è andato avanti il processo di fusione delle nuove forme culturali, affronta poi con particolare acutezza l’analisi dell’intreccio tra musica e danza e i riflessi sull’atteggiamento mentale, sull’ideologia, che tali fenomeni possono mettere in atto. Gramsci coglie gli elementi più concreti e appariscenti della nuova realtà, non disconstandosi, nelle osservazioni sul fanatismo, sulla ripetitività e sul delirio che caratterizzano i danzatori, dalla sostanza delle notazioni contenute nelle fonti giornalistiche o storiografiche dell’epoca. Si pensi, per citare solo qualche esempio, al resoconto apparso il 1° maggio 1916 nel Chicago Herald, dal titolo 60 donne strappano la maschera al vizio, dell’irruzione dell’Anti-Saloon League in locali del South Side di Chicago, sedi di performances jazzistiche[7]. Vengono descritte atmosfere di delirio e confusione, tra il «fracasso che faceva la Jass Band importata da New Orleans». Secondo altre fonti, la gente impazziva dall’entusiasmo al suono della musica dell’orchestra, strillando: «Dateci ancora del jass»[8].

Se questo era il clima americano, non diverso – e più sconvolgente per una mentalità europea abituata a identificare atto musicale con classicità, melodramma, comunque equilibrio di suoni e forme – doveva essere il comportamento delle platee e delle sale europee.

L’altro esempio riguarda descrizioni, del secolo scorso, di shout, danza religiosa dei negri, nelle quali vengono messi in rilievo: monotonia dei movimenti, vigore, fervore religioso, intensità, ipnosi collettiva[9].

Questi dati, che riflettono constatazioni autoptiche, corrispondono, ovviamente, in Gramsci, all’analisi dei riflessi psicologici e ideologici delle cadenze musicali (nulla a che fare, comunque, con le condanne xenofobe del jazz, di stampo fascista o nazista)[10]: il pericolo che nettamente, anche se con l’attenuante dell’ironia, Gramsci prospetta è quello della semplificazione, della massificazione, della riduzione all’elementarietà delle sensazioni, del coinvolgimento di masse sempre crescenti, soprattutto di giovani, in tale esercizio fisico-mentale, dei riflessi, infine, che tale aspetto della personalità, educato attraverso il  linguaggio universale della musica, che comunica immagini e impressioni di una cultura estranea a quella europea, può avere sul comportamento ideologico e, perché no, politico di un individuo.

Sarebbe sbagliato leggere queste pagine gramsciane con l’occhio rivolto soltanto alla grande trasformazione che il fenomeno musicale (jazz, rock, pop-music) ha subito in questi ultimi decenni, e, soprattutto, al ruolo che grandi manifestazioni musicali, i ‘mega-concerti’, nei quali pure si riscontrano forme di ripetitività, addirittura elettronicamente sancite e televisivamente irradiate a livello mondiale, hanno conquistato, toccando anche, e con successo, terreni di impegno civile e politico (antirazzismo, diritti umani, pacifismo ecc.), in particolare tra le masse giovanili. Certo, anche in questi fenomeni si potrebbe cogliere criticamente, e qualcuno lo ha fatto, il rovescio della medaglia, che oggi si chiama: disinvolta sponsorizzazione, interessi industriali ed economici nella diffusione della musica, moda e conformismo.

La ‘lettura’ gramsciana, storicamente datata, può essere considerata, dunque, il tentativo di guardare criticamente a un fenomeno sociale e culturale ‘di massa’ totalmente nuovo, con in più, forse, i ‘sospetti’ che un dirigente comunista nutriva ‘costituzionalmente’ di fronte a espressioni e comportamenti non immediatamente inquadrabili attraverso la griglia conoscitiva e valutativa della sua ideologia.


[1] Non sembri irriverente l’accostamento, ma non posso non pensare alle notizie giornalistiche sulla rock-star Michael Jackson impegnata, così pare, nel tentativo di perdere la pigmentazione nera della pelle. E pensare che alcuni anni fa si cantava: «Sono stanco / d’esser bianco / la mia faccia voglio tingere di ner…».

[2] Sul  razzismo e sull’antisemitismo, nonché sulla edulcorata visione dei negri da Capanna dello zio Tom, si vedano le riflessioni gramsciane in L, pp. 487, 500-502, 569-570, 782, 791, 808, 811.

[3] Il Senegal, la cui storia politica contemporanea è anche intellettualmente rilevante, pare essere per Gramsci un frequente punto di riferimento: anche in L, p. 423 «io dubito che un Senegalese, per aver fatto la guerra, possa comprendere meglio Omero» è l’ironica osservazione a una tesi del ‘filologo’ Emilio Brodero.

[4] L’espressione è di L. Malson, Storia del jazz, Torino, 1968, p. 38. Su tale espansione cfr. A. Francis, Jazz, Milano 1961, pp. 155-156; E.J. Hobsbawm, Storia sociale del jazz, Roma 1982 (ed. or. 1961), pp. 85 (per una sintetica periodizzazione), 96-97, 361 ss. (per la situazione inglese); G. Cane, Facciamo che eravamo negri. Il jazz e il suo black-ground, Bologna 1987, p. 291. Una breve osservazione merita il lavoro di Hobsbawm, apparso, come si sa, nella prima edizione, con lo pseudonimo di Francis Newton. Il taglio decisamente storico-sociologico ne fa una lettura affascinante anche per i non appassionati di jazz. In tale lavoro, vista la connotazione politico-culturale dell’autore, ci si sarebbe, forse, aspettati un cenno a queste pagine gramsciane.

[5] Cfr. E.J. Hobsbawm, op. cit., pp. 344-345.

[6] Basterà ricordare, a testimonianza della continuità di tale ruolo della capitale francese, la vicenda di F. Paudras e B. Powell, poeticamente trascritta dal regista francese B. Tavernier in Round midnight, o le atmosfere del Gioco del mondo di Julio Cortàzar (Torino 1969), nonché alcuni Mi ricordo jazzistici di G. Perec (Torino 1988).

[7] Per tali notizie, cfr. A. Polillo, Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afroamericana, Milano 1975, pp. 93-95.

[8] Sulla primogenitura nell’uso del termine e sul suo significato cfr. A. Polillo, op. cit., pp. 96-99.

[9] Cfr. G. Cane, op. cit., pp. 61-62.

[10] A. Mazzoletti, Il jazz in Italia dalle origini al dopoguerra, bari 1983, riporta una testimonianza di G. Boneschi, musicista e direttore d’orchestra in auge negli anni ’50, sul trucco, sperimentato sia in Germania che nella repubblica di Salò, di ‘travestire’ stazioni radio tedesche o repubblichine da radio americane, proprio attraverso la diffusione di musica jazz (bandita ufficialmente), cui si facevano seguire messaggi di propaganda del regime.

4 COMMENTS

  1. […] In primo piano è la Francia, influenzata dall’intellettualità delle colonie[3], quella Francia che, insieme all’Inghilterra, costituisce, nel secondo decennio del nostro secolo, una delle prime «piccole teste di ponte» del jazz in Europa[4]. In questa prima fase dell’espansione della musica nera americana nel continente europeo, il ruolo di punta che svolgono le jazz bands si esprime soprattutto nella stretta connessione della performance musicale col ballo ritmato[5]. Parigi è una delle capitali europee in cui si ascoltano le prime orchestre di jazz. Forse più che in altre grandi metropoli del continente europeo, il terreno è fertile per un incontro, un innesto culturale che avrà duraturi riflessi anche in altri settori dell’attività artistica[6]. […]

  2. Curiosa la somiglianza, al di là delle differenze, fra la censura gramsciana del jazz e la censura cattolica del tango.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017