Il cappellino
di Elisabetta Scantamburlo
Due rose rosso bordeaux, una più grande, l’altra più piccola. Una piuma nera e una retina a forma di foglia che scende a velare un occhio, due api legate a un fil di ferro che odorano i fiori. Il cappellino era perfetto. L’avevo creato nella mia mente, disegnato, modificato. Avevo cercato i materiali più adatti, girato per negozi, esplorato mercatini per ottenere le tinte giuste e i tessuti migliori, per rendere la sensazione desiderata. Con pazienza avevo messo insieme i pezzi e avevo dato forma all’idea. Ero pronta per l’attesa festa, avrei indossato sul mio capo quella preziosa architettura che attendeva nella sua scatola tonda.
Arrivai alla festa con la scatola appesa al braccio emozionato. La aprii ed era vuota. Girando gli occhi intorno a me in cerca di una spiegazione della sua scomparsa, all’improvviso, tra le teste che già erano arrivate, si aprì un varco e subito lo riconobbi.
Il mio cappello in testa a lei, la mia migliore amica. La mia migliore amica che era passata a trovarmi la sera prima e a cui io avevo mostrato il cappello con tanto ingenuo orgoglio. La mia idea perfetta sul suo capo diventava ai miei occhi povera, mediocre. Le rose rosse mal si accompagnavano al rossetto, la piuma triste si piegava a destra e sinistra con indifferente alterigia. Le api isteriche si volgevano con superficialità da un volto a un altro. E sotto, un volto e un corpo che in un attimo mi erano diventati estranei e odiosi, si muovevano con una leggerezza pari alla loro indifferenza.
Li vedevo, i complimenti immeritati che le venivano fatti, li sentivo gli sguardi di ammirazione gratuiti. E le sue mani, che si alzavano aprendo le dita attorno alla piuma quasi a voler celare una palese soddisfazione, una modestia sintetica. Mio! Era mio! Ogni dettaglio, ogni colore, ogni materiale, parlava di me, eppure nessuno lo vedeva. Ogni particolare cozzava con lei, il suo incarnato, i suoi gesti, il suo profumo. Ed eccola lì, a ricevere con sconvolgente naturalezza tutti gli sguardi pieni di meraviglia e le parole dolci, come fossero cosa dovuta. Io ero nuda, e invisibile non riuscivo a muovermi, né a parlare. Quel cappello mi era stato strappato dalla carne. Le notti passate a pensarlo, a crearlo, erano intessute nella seta delle rose, nei fili che lo legavano insieme. Lui era lì e io no, eravamo divisi e non doveva succedere, perché eravamo fatti della stessa sostanza.
Volevo salire sulla tavola imbandita e urlare: Quel cappello è mio! Sono stata io! Ma la mia bocca era vuota, non possedeva più alcun suono. Altrimenti tutti si sarebbero voltati e avrebbero capito e sorriso a me. E tutti si girarono infatti, ma non verso di me. Proprio tutti si girarono verso di lei. Era lei che aveva urlato. Una lacrima rosso bordeaux le incideva il volto. Era sangue che colava dalle rose, era la piuma che si era incisa sulla carne, era l’ape che aveva scavato il suo alveare tra i capelli. Era la mia opera che si riappropriava del suo potere e rivendicava la mia maternità. E poi tutti si girarono verso di me, tutti gli sguardi erano finalmente per me e la mia bocca che trovava il suono e lacerava il silenzio: Sono stata io! Tutti gli sguardi, pieni d’orrore, finalmente per me.