25 Aprile. Resistenza o resilienza?

leyla

 

di Jamila Mascat 

A due giorni dalla Festa della Liberazione, tornare a parlarne ha meno del post e più della considerazione inattuale. Ma tant’è. La parola resilience mi pare che ricorra più spesso in inglese, forse come conseguenza dei dibattiti in voga nelle scienze sociali anglofone, dalla psicologia del lavoro alla sociologia ambientale. In italiano salta subito agli occhi quanto pericolosamente i due sostantivi resistenza e resilienza si somiglino. Il primo, non c’è dubbio, gode di un’eufonia che l’altro se la sogna, anche se solo per poche lettere di differenza. A livello semantico, a prima vista e grossolanamente, i due termini potrebbero parere altrettanto affini: in fondo tanto i resistenti quanto i resilienti possono essere rubricati nel novero degli individui alle prese con una situazione di difficoltà a cui devono sapere far fronte con coraggio. Solo che il coraggio dei resilienti consiste nella capacità di adattarsi ai cambiamenti e reagire positivamente ai traumi, mentre quello dei resistenti consiste nella determinazione a lottare contro. (Che poi “la resistenza al mondo, creduta eroica, – scriveva Fortini –  sembra per attimi, con orrore, infantile rifiuto dell’arido vero”, è un altro discorso che non c’entra con la Resistenza al maiuscolo). La distinzione, quindi, non è di poco conto. Ma per farla breve: un’impresa preferisce impiegati resilienti; invece resistenti sono i partigiani – e i combattenti per la libertà di ogni tempo e luogo.

In mezzo alle tante manifestazioni romane, come ogni anno da quattordici a questa parte, il comitato Quell@ che il 25 aprile ha organizzato la giornata della Liberazione al Pigneto, durante la quale, tra la altre cose, si rendeva omaggio alla memoria degli abitanti resistenti del quartiere attraverso il percorso guidato Pigneto ’44 – Ribelli”.

Mentre a fine pomeriggio sul palco si discuteva dell’esperienza della resistenza curda di Kobane, ricevo su whatsapp una vignetta in bianco e nero che recita: “Antifascism is the worst product of fascism”, firmato “A. Bordiga”. Nel dire che “il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l’antifascismo”, Bordiga combatteva quelli che riteneva essere i limiti macroscopici di una risposta democratico-borghese al fascismo. Nonostante le attenuanti – trattasi di un’espressione malamente estrapolata che meriterebbe in ogni caso di essere discussa e compresa nel suo contesto – una frase del genere risuona profondamente blasfema e difficilmente condivisibile. Eppure dice qualcosa, suo malgrado, rispetto a un pericolo  che minaccia e anzi già incrina la cultura della Resistenza, cioè quella costellazione di discorsi, riflessioni e commemorazioni che mettono a tema la storia e l’eredità dell’antifascismo e si condensano intorno alle celebrazioni del 25 aprile.

Finemente raccontata e tramandata dagli storici specialisti, la storia della Resistenza italiana (gli esperti obietteranno che ce ne sono più d’una, ma la semplificazione è d’obbligo in questo post, e per la complessità è bene leggere altrove, in particolare i contributi originali di D. Broder e F. Giliani) è nel bene e nel male patrimonio di tutti. Nel bene (è ovvio) e nel male (per quell’effetto “intramontabile” – a dispetto dei tentativi osceni di scrivere storie diverse, brutte e revisioniste – che ha il sapore del navy blue per i completi da uomo: buono per tutte le stagioni). 

Quel che lascia perplessi, del resto, non è il paradosso ecumenico per cui, solo per fare un esempio, il sindaco Marino e i centri sociali che l’amministrazione romana si diverte sgomberare da mesi, celebrino, ciascuno a suo modo, la Giornata del 25 aprile. Piuttosto, quel che lascia perplessi è che si possa convertire il capitale simbolico della Resistenza in una sorta di invariante metafisico, invocato e santificato ovunque, e tuttavia indeclinabile e perciò condannato a essere conservato solo in luoghi (istituzionali) freschi e asciutti.

Ma se si vuole evitare di trattare la Resistenza come un salume pregiato, allora non si tratta semplicemente di conservarla. Si tratterebbe invece di consumarla e mobilitarla al presente – “Ora e sempre Resistenza”, recita la famosa poesia di P. Calamandrei –  perfino in luoghi afosi e bagnati di sangue come i Territori Palestinesi, a qualche mese di distanza dall’operazione Protecting Edge contro Gaza.

Pochi, e tra questi Moni Ovadia sul manifesto, hanno risposto per le rime al presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, che ha annunciato qualche settimana prima delle celebrazioni previste per il 25 aprile che la sua organizzazione avrebbe disertato i festeggiamenti, dopo che anche l’Aned e le Brigate ebraiche avevano confermato di non prendere parte al corteo di Porta San Paolo, storico raduno antifascista della Capitale. “Dato che sarà Shabbat non saremo presenti – ha dichiarato Pacifici – ma non ci saremo anche perché i palestinesi, che saranno al corteo, durante la guerra erano alleati dei nazisti”.

Risponde Ovadia che: “il gran muftì di Geru­sa­lemme Amin al Hus­seini, mas­sima auto­rità reli­giosa sun­nita in terra di Pale­stina fu alleato di Hitler, favorì la for­ma­zione di corpi para­mi­li­tari musul­mani a fianco della Ger­ma­nia nazi­sta e fu fiero oppo­si­tore dell’instaurazione di uno stato Ebraico nel ter­ri­to­rio del man­dato bri­tan­nico. Men­tre la bri­gata ebraica com­bat­teva con gli alleati con­tro i nazi­fa­sci­sti. Tutto vero, ma il muftì nel 1948 venne desti­tuito e arre­stato: oggi vedendo una ban­diera pale­sti­nese a chi viene in mente il gran muftì di allora?”. Piuttosto – continua Ovadia – “oggi la ban­diera pale­sti­nese parla a tutti i demo­cra­tici di un popolo colo­niz­zato, occu­pato, che subi­sce con­ti­nue e inces­santi ves­sa­zioni, che chiede di essere rico­no­sciuto nella sua iden­tità nazio­nale, che si batte per esi­stere con­tro la poli­tica repres­siva del governo di uno stato armato fino ai denti che lo opprime e gli nega i diritti più ele­men­tari ed essen­ziali. Un governo che lo umi­lia esco­gi­tando uno stil­li­ci­dio di vio­lenze psi­co­lo­gi­che e fisi­che e pseudo legali per ren­dere esau­sta e irri­le­vante la sua stessa esistenza”.

Ecco, forse, affinché la memoria della Resistenza non affoghi nel magma della resilienza, bisognerebbe continuare a resistere e non solo resilire (in questo caso, appunto, “pervertire” il senso della Resistenza). Ricordando e celebrando, insieme a (e non contro) gli ex-deportati e i  partigiani rossi e neri, generazioni di palestinesi resistenti contro i crimini israeliani.

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).