Overbooking: Raùl Zecca Castel

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[Il seguente testo è un estratto dal libro di Raùl Zecca Castel, Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana, Arcoiris Ed., 2015, € 14, pp. 272. Le fotografie sono state scattate dall’autore stesso ]

La Hispaniola: un’isola, due nazioni

di

Raùl Zecca Castel

La storia della frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana è una storia di pirati, saccheggi e contrabbando. Quando Colombo approdò sull’isola di Quisqueya – com’era chiamata dagli indigeni taíno – i coloni spagnoli stabilirono il loro quartier generale sulla costa sud-orientale del paese, dove fondarono Santo Domingo, primo insediamento europeo del Nuovo Mondo. La colonia, tuttavia, non prosperò a lungo, poiché gli interessi della Corona di Spagna si spostarono ben presto verso le ricche miniere aurifere di Messico e Perù. Al di là delle mura di Santo Domingo, gran parte dell’isola rimase del tutto incustodita ed esposta alle incursioni di molteplici attori. Già a partire dalla fine del XVI secolo imbarcazioni corsare battenti bandiera inglese e francese avevano cominciato ad assaltare le navi mercantili spagnole lungo le coste della colonia al fine di impossessarsi del prezioso carico oltre che per tentare di indebolire l’espansione commerciale della più temibile potenza rivale.

Molti corsari, d’altra parte, non rispettarono a lungo l’impegno stipulato con la madrepatria e si diedero alla pirateria. L’isola di Tortuga, pochi chilometri a nord di Hispaniola, fu la più importante base strategica della pirateria nel Mar dei Caraibi durante il XVII e il XVIII secolo. Qui si stabilirono bucanieri e filibustieri inglesi, olandesi e francesi che si dedicarono non solo all’arrembaggio dei vascelli, ma anche al furto d’animali e al commercio illegale, soprattutto di pelle e carne, contrabbandate grazie ai sempre più frequenti contatti con gli allevatori della zona nord-occidentale di Hispaniola, i quali traevano maggior profitto nel negoziare con i trafficanti di Tortuga piuttosto che rispettando i severi dazi doganali imposti dalla colonia. Per contrastare il fenomeno del contrabbando e fermare la diffusione della religione luterana, nel 1604, su ordine del Re di Spagna Filippo III, il governatore Antonio Osorio fece trasferire in massa la popolazione che risiedeva nei territori occidentali della colonia nei pressi di Santo Domingo. I tentativi di resistenza furono piegati con l’uso della forza, impiccando i sobillatori, incendiando case, fattorie, chiese e campi coltivati.

Foto Schiavi in liberta 4

Durante le operazioni di sgombero, circa 100 mila capi di bestiame vennero persi e numerosi schiavi neri riuscirono a fuggire trovando riparo sui monti. Le devastaciones di Osorio, che si conclusero nel 1606, segnarono di fatto la ritirata della Spagna dalla porzione più occidentale dell’isola, rapidamente occupata dai francesi. Con il trattato di Ryswick, firmato nel 1697, la Corona spagnola cedette ufficialmente il terzo occidentale dell’isola alla Francia e una linea di 388 chilometri tracciò verticalmente il confine tra le due potenze coloniali. Tuttavia, confini e frontiere, lungi dal siglare paci durature, non produssero che tensioni e nuovi conflitti. Nel 1804, ad ovest del confine, nacque la Repubblica di Haiti e nel 1821, ad est, lo Stato Indipendente di Haiti spagnola. Meno di tre mesi più tardi, l’esercito haitiano invase la zona orientale e riunificò l’isola per 22 anni, fino al 1844. Risale a questo breve periodo di occupazione la genesi delle ancora attuali ostilità tra la Repubblica Dominicana e Haiti, e in particolare, dal lato dominicano, il timore, fomentato da frange politiche ultranazionaliste, che le crescenti ondate migratorie provenienti da Haiti siano parte di un piano strategico finalizzato alla riconquista di quella porzione dell’isola.

Ma è soprattutto nel 1937 che tali preoccupazioni esplosero in tutta la loro violenza, provocando un bagno di sangue che passò alla storia come “il massacro del prezzemolo”. Sin dalla sua ascesa al potere, il dittatore Trujillo implementò una politica impregnata di ideologia nazionalista, fortemente xenofoba e razzista nei confronti della popolazione haitiana. Con enfasi sempre più accentuata, la retorica populista del regime opponeva le nobili origini spagnole ed europee della Repubblica Dominicana a quelle africane e dunque spregevoli di Haiti, il mito della superiorità bianca alla vergogna della razza negra, la religione cattolica alla stregoneria del Voudou, in sintesi, la civiltà e il progresso alla barbarie e all’ignoranza. Disse Trujillo: “Gli haitiani sono stranieri nella nostra terra. Sono sporchi, ladri di bestiame e praticano il Voudou. La loro presenza sul territorio della Repubblica Dominicana non deve portare al deterioramento della qualità di vita dei nostri cittadini”[1]. Presto fatto: il 3 ottobre 1937, il dittatore impartì l’ordine di ripulire la Repubblica Dominicana dalla popolazione di origine haitiana e, in particolare, le zone di frontiera, al fine di rendere chiara una volta per tutte l’esistenza di un confine separatore e di una gerarchia morale tra un paese e l’altro.

[…]

Si calcola che le persone assassinate durante i cinque giorni che durò il massacro siano comprese fra le 20 e le 30 mila. Il criterio adoperato per stabilire l’appartenenza etnica dei fermati e identificarli o meno come haitiani consisteva nel far pronunciare loro la parola perejil: prezzemolo. Bastava un difetto di pronuncia della lettera r, tipico nei francofoni, per essere immediatamente condannati a morte. Senza ulteriori distinzioni, uomini e donne, anziani e bambini, vennero trucidati in massa lungo la frontiera a colpi di pistola e fucile, ma anche con accette, coltelli e machete. Il proposito di Trujillo, infatti, era quello di attribuire la responsabilità della carneficina a un’improvvisa esplosione di intolleranza della popolazione civile, così da potersi lavare le mani dal sangue versato. Di fronte all’evidenza del coinvolgimento dell’esercito dominicano e facendo seguito alle crescenti pressioni di Haiti e Stati Uniti, Trujillo accettò infine di pagare 525 mila dollari di indennizzo al governo haitiano: 29 dollari per ogni vittima ufficialmente accertata.

Da quel momento, ancor più di prima, la frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana sarebbe stata una cicatrice aperta, il segno indelebile di una ferita che squarcia l’isola in due immaginari contrapposti. Il suo passaggio ha così assunto un duplice valore: per i dominicani la frontiera con Haiti è la porta dell’inferno, oltre la quale vige un mondo in decadenza, popolato di selvaggi spietati dal cuore nero, un incubo che talvolta serve da monito per i bambini capricciosi. Per gli haitiani, al contrario, oltre quel confine si nasconde la speranza di un riscatto, il sogno di un lavoro e di un futuro, il luogo, insomma, dove proiettare il desiderio di una vita degna. Attraversare quel confine, in un senso o nell’altro, significa ad ogni modo fare i conti con gli innumerevoli pregiudizi che si sono sedimentati nel corso del tempo e, soprattutto, significa fare i conti con una società, una lingua, una religione e una cultura totalmente differenti. O quasi.

Il 95% della popolazione haitiana è di origine africana, così come anche la grande maggioranza della popolazione dominicana. Eppure nessun dominicano vorrebbe riconoscerlo.

[…] L’autorappresentazione razziale della popolazione dominicana nei termini di appartenenza a una nazione bianca, direttamente e orgogliosamente discendente dai colonizzatori spagnoli, è l’eredità politica di una dittatura lunga un trentennio che ha fatto dell’anti-haitianismo il suo cavallo di battaglia.

Foto Schiavi in liberta 3

L’identità dominicana venne culturalmente costruita durante gli anni del regime di Trujillo in contrapposizione a quella haitiana, sulla quale si proiettarono le peggiori colpe, prima fra tutte la sua origine africana e nera. Strettamente connessa alla discriminazione razziale vi è poi la questione del culto religioso. Formalmente, tanto nella Repubblica Dominicana quanto ad Haiti, la religione ufficiale è rappresentata dal cattolicesimo. Tuttavia, come recita con malizia un celebre detto locale, “la popolazione haitiana è per l’80% cattolica, per il 20% protestante e per il 100% Voudou”. Tale religione è infatti praticata dalla stragrande maggioranza della popolazione senza per questo essere alternativa al credo cattolico. Fondata su una teologia complessa e antichissima, esprime per sua natura un insieme di varie credenze africane poi influenzate dal cristianesimo, tanto da rappresentare il culto sincretico per eccellenza. A scapito della sua ricca cosmologia, tuttavia, il Voudou è stato da sempre identificato con i suoi aspetti rituali più oscuri ed enigmatici. Lo stesso Jean-Claude Duvalier si servì strumentalmente del Voudou per i fini politici del suo sanguinario regime, facendo leva sul potere di suggestione che alcune figure come quelle degli zonbies e dei tonton macoute procuravano ai credenti. In questo modo, la religione venne utilizzata per mantenere l’ordine stabilito dalla dittatura. Parallelamente, dall’altro lato del confine, soprattutto a partire dall’ascesa al potere di Trujillo, il Voudou è stato identificato come simbolo dell’arretratezza e dell’inciviltà degli haitiani, capaci di credere a qualsiasi cosa, compresa la stregoneria. Nella Repubblica Dominicana, parlare di Voudou significa evocare spiriti, incantesimi, malefici, possessioni, sacrifici animali e, più in generale, tutto ciò che ha a che fare con la magia nera.

Infine, a dividere culturalmente e storicamente le due nazioni, vi è la lingua. Da un lato, nella Repubblica Dominicana, si parla spagnolo, mentre dall’altro, ad Haiti, le lingue ufficiali sono persino due: il francese e, dal 1987, il kreyol aysyen. Quest’ultimo è una lingua creola originata, oltre che dal francese – da cui deriva principalmente il suo lessico – dall’insieme di più lingue native dell’Africa occidentale, tra cui soprattutto il wolof, il fon e l’ewe, che ne forniscono invece la struttura grammaticale. Se il francese è parlato correntemente da una ristretta élite di persone, pari circa al 10% della popolazione, il creolo haitiano è invece la lingua più conosciuta e diffusa nel paese. Anche per questo motivo le imprese dominicane dello zucchero si servono principalmente di cercatori haitiani per reclutare nuovi lavoratori: non solo risultano più affidabili agli occhi dei loro connazionali, ma hanno il vantaggio non indifferente di saper parlare nella stessa lingua.

Nota

di

Fabrizio Lorusso

“Come schiavi in libertà” è un ibrido narrativo, un racconto basato su ricerche etnografiche ed esperienze di vita, con cui l’autore, l’antropologo Raùl Zecca, ci porta in uno degli inferni dimenticati dei Caraibi, le piantagioni di zucchero della Repubblica Dominicana. Durissime condizioni di lavoro, tratta, perdita dell’identità, razzismo, vessazioni di caporali e solitudine sono le prove che affrontano i migranti, in gran parte haitiani, che cercano di sopravvivere tra le piantagioni e gli zuccherifici delle tre compagnie che si spartiscono il mercato. La narrazione di Raùl Zecca parte dallo zucchero, vera droga e motore delle rivoluzioni industriali dell’Ottocento e Novecento e agente ingrassante e diabetico del secolo attuale, e dalle vecchie e nuove forme di schiavitù. Riesce a legare abilmente gli aspetti locali dello sfruttamento del lavoro ai fenomeni politici ed economici nazionali, latino americani e globali. Le storie di vita raccolte nel volume vanno costruendo così nuovi significati e riflessioni, oltre a segnalare, infine, percorsi di liberazione e di speranza.

 

[1]       Cfr. FARMER, Paul. Haití para qué: usos y abusos de Haití. Hiru, 2002, p. 58.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017