Il lettore di Dante
di Alberto Cristofori
A partire dal 5 febbraio 2019, Alberto Cristofori legge la Divina Commedia alla libreria Tempo Ritrovato di corso Garibaldi, Milano. Conta di terminare nel settembre del 2021, in occasione del 700° anniversario della morte del poeta. Questo scritto sintetizza alcune delle ragioni del suo progetto.
“Il lettore di Dante” nasce in difesa della Divina Commedia. Ma perché mai, direte, la Divina Commedia dev’essere difesa? E da chi, di grazia?
Vi racconterò alcune cose che mi sono successe.
Quando ho fatto la terza media il latino esisteva ancora come materia facoltativa. Perché studiarlo? La grande argomentazione di chi lo evitava era: “non serve a niente”. La grande argomentazione di chi, come i miei genitori, invitava a studiarlo, era: “ti quadra la testa” (traduco per chi non frequenta l’idioletto di certa borghesia lombarda: ti insegna a pensare in maniera logica e rigorosa).
Capite che ho avuto i miei momenti difficili, in gioventù.
Molti anni dopo, ho fatto per un breve periodo il lavoratore dipendente. Frequentavo il sindacato. A un’assemblea, una volta, un rappresentante ha citato un mio vecchio amico ebreo: “Non di solo pane vive l’uomo!” E intendeva, poveretto, che si aveva diritto anche al companatico, cioè (traduco) a qualche aperitivo, qualche vestito firmato, qualche viaggetto. Applausi scroscianti. Era il 1988 o 89, avete presente? Milano da bere eccetera…
Altra epoca, siamo ormai nel nuovo millennio, altra voce, quella di un ministro dell’economia berlusconiano: “la Divina Commedia non ha mai dato da mangiare a nessuno”.
L’affermazione è falsa in sé, da un punto di vista strettamente economicistico (era infatti un pessimo ministro dell’economia, quello di cui parlo). Non per fare i conti in tasca ad altri, ma chiedete a Sermonti o a Benigni…
Soprattutto però è falso il rozzo materialismo di cui quel ministro era la rozzissima espressione. La riduzione della cultura a qualcosa che serve – per guadagnare dei soldi, per trovare lavoro, per “quadrarsi la testa”…
La Divina Commedia, per fortuna, non serve a niente: come non servono a niente le sinfonie di Beethoven e le Ninfee di Monet. Essendo umani, e non ditteri, non possiamo accontentarci del pane – abbiamo bisogno di dare un senso alla nostra vita e per farlo ricorriamo anche a cose inutili come l’arte, la musica, la poesia.
In segno di protesta, nel 2015 ho organizzato “Milano per Dante. 100 voci per 100 canti”, chiamando cento esponenti della società civile a leggere un canto della Divina Commedia ciascuno. Molti, tra il pubblico, e anche alcuni partecipanti, si sono stupiti che non lo facessi per guadagnare dei soldi.
Dante va difeso anche da un’altra forma di materialismo, più sottile. Quella dei “matematici impertinenti” che lo considerano diseducativo. E che conducono i loro attacchi in televisione, nelle ore di punta – mica su qualche rivista specializzata.
Quelle che Dante racconta, dicono, sono vecchie fole prive di fondamento scientifico, espressione di una mentalità superstiziosa, a tratti addirittura fanatica. Lasciamo che se ne occupino gli specialisti, ma smettiamo di proporla nelle scuole. I giovani, dicono, potrebbero prendere sul serio i segni zodiacali, convincersi che esistano l’inferno e il paradiso, gli angeli e i diavoli. Con tante verità di cui parlare, perché perdere tempo con queste fantasticherie? Studino la chimica, la fisica… che sono utili…
Dante, come tutti i grandi artisti e come tutti i grandi scienziati, sa che bellezza è verità e verità bellezza. Sono i mediocri che difendono il proprio campicello sminuendo l’attività altrui, contrapponendo cultura umanistica e cultura scientifica. Galilei scriveva poesie (bruttarelle) e saggi di critica letteraria (ottimi). Goethe era un esperto di botanica e di ottica. Einstein suonava (bene) il violino. I piccini della televisione vorrebbero proteggere i suggestionabili pargoli cancellando dai programmi scolastici Dante (e, a rigor di logica, anche Omero, per evitare ondate di neopaganesimo, Shakespeare, antisemita e maschilista, Dostoevskij, per carità…).
Vi dirò fino in fondo quello che penso.
Da ateo, ateo convinto. A chi mi parla di segni zodiacali rido in faccia. A chi mi parla di miracoli, angeli e apparizioni madonnesche guardo con una certa superiorità compassionevole, lo ammetto.
Ma se c’è una cosa che mi sento in dovere di trasmettere alle giovani generazioni è proprio l’ammirazione per l’esercizio di pensiero da cui è nata l’opera tutta di Dante, e la Commedia in particolare. Per la grandiosità della concezione, per l’ambizione ad affrontare tutti gli argomenti, tutti gli aspetti della vita e del mondo. E per la radicalità con cui Dante va a fondo dei problemi che affronta, sfidando convenzioni, schemi, pregiudizi. Certo, con gli strumenti che aveva a disposizione. Nell’ambito del suo tempo, come chiunque.
Perché mai dovrebbe essere una perdita di tempo imparare a capire come pensava un genio? Tanto meglio se la sua visione del mondo è lontana dalla nostra. A cosa si vuole educare, se no – alla mediocrità? all’adesione acritica al nostro paradigma?
Poi ci sono le attualizzazioni volgari. Anche a queste la televisione dà sempre molto spazio. Berlusconi all’inferno, dove lo mettiamo? Fra i lussuriosi, sì, no, si fa per scherzare.
Si commentano pochi versi, naturalmente: i passi più famosi. La selva oscura, Caronte, Francesca, Ulisse, Ugolino. Quelli che gli spettatori conoscono già, o credono di conoscere. La preghiera alla Vergine. Niente sodomiti, niente usurai, niente musulmani – troppo rischiosi, troppo attuali, paradossalmente.
E si dice, e si ripete, e si urla addirittura, che son cose grandi, grandissime, belle, bellissime, senza mai spiegare perché sono grandi, dove sta la bellezza. Mica che a qualcuno venga in mente di farsi delle domande: si ride, ci si commuove, ci si entusiasma d’essere italiani (noi s’è avuto Dante, come se fosse un merito) e tanto basta.
E adesso devo parlarvi della scuola.
La mia professoressa del liceo amava il Novecento e del Medioevo sapeva poco e aveva capito meno. Dedicava a Dante un’ora alla settimana – quando non c’erano compiti in classe o altri impegni eccezionali. L’ora era l’ultima del sabato, dalle dodici all’una. Ne ho un ricordo di fame e di noia.
Di noia, soprattutto, perché ogni terzina, ogni verso, erano sezionati, analizzati, notomizzati, con l’aiuto di note infinite. Guai a ignorare le fonti da cui Dante aveva tratto l’idea che la durata ideale della vita umana fosse di settant’anni. Ore intere sulle ipotesi che nel corso dei secoli sono state avanzate per spiegare la profezia del veltro. Francesismi, provenzalismi, latinismi, neologismi, sicilianismi, tutta una classificazione che neanche in un obitorio.
E io, badate, già minacciavo qualche interesse letterario, qualche perversa tendenza alle facoltà umanistiche. Posso solo immaginare il disgusto di chi all’università avrebbe scelto fisica o economia, ed era costretto non a leggere Dante, ma a farsi dantista, a concentrare l’attenzione non sul testo, ma sugli apparati – le note, i commenti, le interpretazioni, la critica…
Ammettiamo che la lettura antologica sia inevitabile. Ma Dante certo non prevedeva che i suoi lettori avrebbero avuto bisogno di note. Perché trasmettere il messaggio che la Commedia non si possa più leggere, ma solo studiare? Vale a dire: che sia un testo ormai morto, che i non specialisti possono solo ammirare da lontano, come certe mummie nelle teche dei musei, fragilissime, a cui solo gli egittologi possono accostare le mani?
Senza dubbio qualche aiuto è indispensabile per colmare la distanza linguistica e di enciclopedia che ci separa da Dante. Giustamente Borges lamentava che la felicità di leggere Dante “in perfetta innocenza” ci è ormai negata.
Ma è altrettanto indubbio che vi siano eccessi, nel modo in cui viene presentato il testo del poema – eccessi che spaventano il potenziale lettore e che rivelano, ancora una volta, una sostanziale sfiducia nel testo stesso. Come se le parole di Dante, anche laddove sono chiarissime, non possano essere intese nel loro vero significato se non dagli studiosi, dai filologi, dagli happy few.
Leggere la Divina Commedia è per me un atto politico, nel senso più profondo del termine. Di politica culturale, se volete, ma io dico di politica tout court.
La mia scommessa è che, con pochi aiuti essenziali, sia possibile tornare a leggere, appunto, e non solo a studiare, la Divina Commedia: recuperare un rapporto più diretto con il testo e con la sua poesia.
Leggere la Divina Commedia significa, per esempio, non sostituire a espressioni perfettamente comprensibili, come “andavam forte”, la piatta parafrasi “camminavamo velocemente”. Significa non tradire l’intenzione di Dante, forzando a un senso chiaro quanto il poeta voleva che restasse oscuro, come il celebre Pape Satàn, pape Satàn aleppe. Significa, infine, non anticipare ciò che il testo non ha ancora spiegato, privando le parole della loro carica emotiva: la “Caina” evocata da Francesca perde tutta la sua forza suggestiva se ci viene subito detto che è una delle zone in cui è diviso l’ultimo cerchio; chi, commentando il canto di Ulisse, spiega che le stesse espressioni “com’altrui piacque” eccetera torneranno all’inizio del Purgatorio, spoilera quanto chi svelasse l’assassino all’inizio di un giallo.
Ho chiamato questo progetto “Il lettore di Dante” perché proverò a rimettermi nella condizione del lettore ideale che Dante ha immaginato per il suo poema. Diciamo meglio: dei diversi lettori ideali che emergono nel corso dell’opera, col passaggio dalla prima alla terza cantica.
Questa lettura è anche un modo per mettere alla prova il testo: per verificare cioè se la Divina Commedia sia un’opera ormai capace di parlarci solo attraverso infinite mediazioni; o se viceversa sia un’opera ancora viva – e in che misura, e a che condizioni, possa dire qualcosa di importante a noi lettori del xxi secolo.
Per informazioni:
Tempo Ritrovato Libri
Corso Garibaldi 17 – Milano
Tel: 02-99293575
Email: info@temporitrovatolibri.it
Milano per Dante
Email: milanoperdante@gmail.com
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Peccato la lontananza, mi sarebbe piaciuto assistere a codeste letture/”lettore di Dante” atteso che, un tre/quattro anni or sono ho riletto un po’ tutta la Commedia ignorando (volutamente) note, contro/note e via dicendo lasciandomi andare al puro (o impuro?) andare dei versi e certo Borges aveva ragione circa la “perdita dell’innocenza” nel leggerla eppure, eppure..
r.m.