Note movie: C’era una volta…a Hollywood

di

Franco Bergoglio

 

Prima che Vincent Vega mi spappoli il cervello e arrivi Mr. Wolf a infilarmi in un sacco nero per lesa maestà tarantiniana premetto che C’era una volta…a Hollywood è un buon film. Quale città nell’immaginario universale rappresenta meglio di Los Angeles il crimine, dalla carta di Raymond Chandler alla celluloide di chiunque, alla realtà della rivolta conseguente al pestaggio di Rodney King. Chi, meglio di James Ellroy, ha descritto meglio le sue piaghe purulente, una ad una, decennio dopo decennio? E chi meglio di Tarantino poteva cogliere nel fiore della maturità insieme il mito del cinema hollywoodiano, la fine degli anni Sessanta, la strage di Manson?

Le attese sulla poltrona del cinema girano a mille. E il film soddisfa. Le architetture, i drive in, i costumi, le macchine, tutto è ricostruito maniacalmente. Giriamo in Dolby Surround nei party organizzati dalle star, saliamo e scendiamo le curve delle colline di Hollywood. Steve McQueen sembra un manichino parlante di Madame Tussauds. E’ un vortice di immaginari che ruotano furibondi, un carnevale del postmoderno senza eguali cinematografici che non risparmia nulla: dalla marca del televisione a quello che si vede nel televisore, alle etichette di cibo per cani tarantino-warholiane, alle locandine dei film che pulsano sotto le luci dei cinema. I riferimenti sprizzano a centinaia.

La colonna sonora? Anche lì Tarantino replica il vortice. La musica si accende e si spegne insieme alle autoradio della Cadillac Coupe de Ville modello ’66 di DiCaprio, portando con sé qualche chicca e parecchia spazzatura retrò; come sempre capita quando si gira la manopola del sintonizzatore nell’etere FM. Le musiche da film arrivano dalla ricerca di pietre preziose fatta con l’aiuto di consulenti in grado di aprire i tesori del B-movie italiano per quel golosone di Tarantino. La scena Tate-Polanski con Hush a tutto volume è una macchina del tempo perfetta: la storia ci spiega che i Deep Purple la suonarono alla Playboy Mansion nell’ottobre del ’68. Di California Dreamin’ viene scelta la versione di José Feliciano, che aggiunge un tocco di tristeza latina all’eterna estate californiana. I Vanilla Fudge punteggiano il trip in acido di Cliff Booth/Brad Pitt. Sharon Tate ascolta Paul Revere & the Raiders conscia che non sono i Doors (evocati, ma non sentiti).

Dalla archeologia del pop sixty di Son Of a Lovin’ Man dei Buchanan Brothers alle rimasticature r&b di Mitch Ryder & The Detroit Wheels con Jenny Take A Ride. Siamo su un ottovolante sparato a tutta velocità nella musica anni Sessanta. La giostra è condotta dai parrucconi delle case discografiche impegnati ad estrarre i soldi dalle tasche della gioventù americana ancora lontana dalla ribellione, grazie a una musica-merce, senza velleità artistiche o sociali. Il gioco sui registri alto/basso della cultura ci fa salire altissimi con un Neil Diamond, che per rubare la battuta a uno dei personaggi del film, Sam Wanamaker/Nicholas Hammond: «cattura la zeitgeist dei tempi», e poi si scende in basso con una Hey Little Girl di Dee Clark che avrebbe giustificato una carneficina da parte del buon Bo Diddley. Come spiegare il guazzabuglio musicale messo in piedi dal Quentinone? Rileggiamo in chiave 45 giri il mito di Superman di Umberto Eco? Lo consideriamo solamente del pulp musicale? Non serve: stappiamoci una Old Chattanooga Beer sul divano con Cliff/Pitt, usando un citazionismo appropriato a Tarantino: «Da quel gran paraculo che è», come ha scritto Luca Giannelli su Intellettuale dissidente. La musica comunque gira. Dov’è che toppa il film, allora? Nel non avere utilizzato la stessa precisione per dipingere il quadro sociale.

Le hippies del periodo non erano mica tutte seguaci di Manson et similia. Non costituivano dei wild bunch di bonazze con inquadrature rubate a Charlie’s Angels (come mi spiegano i cinefili). E il femminismo? Il nuovo protagonismo positivo della donna? Nada. Altro punto. Per tutto il film i vari personaggi continuano a dire: «hippy del cazzo». Non è che tutto il mondo alternativo fosse pieno di fucking hippies che seguivano Manson o altri criminali. Timothy Leary che era il personaggio della controcultura più “santone hippie” di tutti, era colto, positivo, rivolto al futuro. Per Nixon era l’uomo più pericolo d’America. Lui, mica Manson o qualche satanista come lui. Quelli al massimo incrementano la vendita di armi e un uso distorto delle droghe. Le comuni non erano bande, ma luoghi di condivisione, di vita comunitaria e di uscita dalle logiche di mercato. Il verbo era il pacifismo, non la violenza. Si guardava alle religioni orientali, all’armonia con la natura, a un modo diverso di vivere. Il danno maggiore che hanno fatto è di averci lasciato soli con la New Age, mica stragi e sangue. La controcultura di Berkeley, di Allen Ginsberg, della New Left era diversa. Le sette sataniche brulicavano soprattutto a Hollywood, nel giro degli attori e nel sottobosco dell’industria cinematografica e musicale. Un mondo duro fatto di sesso, soldi rapidi, droghe, potere, mito del successo. Non nego che la storia di Charles Manson sia indissolubilmente legata al rock per innumerevoli vie, più di quelle mostrate nel film (il produttore Terry Melcher e il batterista dei Beach Boys Dennis Wilson, i due personaggi che introdurranno quella manica di sbandati nella casa di Cielo Drive).

I legami filosofici con la musica sono stati ben spiegati dal procuratore del processo a Manson, Vincent Bugliosi che ha ricostruito con meticolosità in un libro la genesi di quei massacri. L’uso distorto e manipolatorio delle canzoni dei Beatles che proponeva Manson ovviamente non aveva nulla a che vedere con i quattro di Liverpool. Sul lavoro di Bugliosi hanno basato film e serie Tv, quindi non vale la pena soffermarsi e non interessa neanche a Tarantino. Il film sceglie di raccontare una storia diversa e per motivi di spoiler non possiamo procedere oltre, ma essendo una fiaba con il “c’era una volta…” è ovviamente tutto legittimo. Il film sceglie un punto di vista e ci si rinchiude. Ricostruisce quel sottobosco hollywoodiano dei Sixties, quello straccione delle produzioni televisive di western o serie d’avventura low budget, girate nel backlot degli studios, con attori che avevano sfiorato il sogno di fare il grande salto e che non c’erano riusciti, ma come falene giravano ancora vorticosamente attorno alla luce. Ci sta che quel lumpenproletariat di attori, registi, stuntman e caratteristi di serie B fascisteggi un po’ e non si mostri così progressista come le stelle di Hollywood ci hanno abituato a pensare di essere. L’estate di Manson è anche quella di Woodstock; i due fatti sono contemporanei, ma a Hollywood la mentalità individualista e destrorsa del sottobosco vede all’orizzonte solo hippies del cazzo, altro che protagonismo giovanile. Il sogno del cinema copre completamente il sogno hippie. A Tarantino interessa fare cinema che parla del mito del cinema e anche quando fa stigmatizzare da un personaggio la violenza gratuita che domina tutta la produzione hollywoodiana poi immediatamente ci mostra un saggio di quella violenza. Ricorda un po’ quei preti che dal pulpito inorridiscono per il sesso, ma poi nel buio della sacrestia…

Sarebbe bello che il Tarantino che ha ricostruito interi quartieri della LA fine anni Sessanta, che ha ricreato il traffico originale con un profluvio di macchine d’epoca, che ha consulenti straordinari per costumi e musiche, coreografi per imitare la danza marziale di Bruce Lee e quant’altro gli è servito per il film mettesse a libro paga un esperto di storia degli Anni Sessanta. Il suo amato Sergio Leone aveva assunto un giallista, giornalista e saggista come Stuart Kaminsky per aiutarlo a ricostruire meticolosamente le ambientazioni storiche dei suoi film. E Stuart lo aiutava anche nelle sceneggiature e nei dialoghi. Il potere del cinema nel plasmare gli immaginari è immenso e Tarantino lo sa e lo usa. Certamente il cinema non è un libro di storia, ma rubare qualcosa da incuneare qua e là non sarebbe stato male. L’America ha scrittori e intellettuali che possono dargli una mano a uscire dal suo buco e complicare un po’ la sua America. Io butto là l’idea e se vuole approfondire basta un fischio e un biglietto aereo. Perché non si resiste al mito californiano, neanche a uno parziale.

 

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017