Una guerra globale ‘monoteistica’ 2
La prima puntata di questa riflessione di Zolo è apparsa qui. (Ho proposto questa riflessione in occasione della manifestazione del 17 febbraio a Vicenza. A. I.)
di Danilo Zolo
3. La guerra globale
I due paragrafi che precedono – è il momento di svelarlo al lettore che ci abbia volenterosamente seguito sin qui – non sono che una lunga premessa della tesi centrale di questo saggio: nell’ultimo decennio del secolo scorso, dopo la fine della guerra fredda e il tramonto dell’ordine bipolare del mondo, sia il fenomeno della guerra, sia gli apparati retorici della sua giustificazione sono radicalmente cambiati. Questo cambiamento – è la seconda tesi, implicita, del presente saggio – può essere adeguatamente interpretato solo nel quadro dei processi di trasformazione economico-finanziaria, informatica, politica e giuridica che vanno sotto il nome di ‘globalizzazione’. La trasformazione della guerra e delle sue protesi ideologiche è stata accelerata, non ‘causata’, dall’attentato terroristico dell’11 settembre 2001, che ha portato alle guerre degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati contro l’Afghanistan e contro l’Iraq. In questa cornice analitica l’11 settembre presenta un rilievo marginale.
E’ bene sottolinearlo perché recenti interpretazioni filosofico-politiche – penso ad esempio al libro di Carlo Galli, La guerra globale (15) – lo assumono invece come uno spartiacque cruciale, addirittura come il discrimine fra età moderna ed età globale. In questi ultimi anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione dalla ‘guerra moderna’ alla ‘guerra globale’. Questa transizione non riguarda soltanto la morfologia della ‘nuova guerra’, e cioè la sua dimensione strategica e la sua potenzialità distruttiva, che hanno assunto entrambe una misura globale. Strettamente connessa è una vera e propria eversione del diritto internazionale moderno, e una regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusi importanti elementi della dottrina ‘monoteistica’ del bellum justum e del suo nocciolo teologico-sacrificale di ascendenza biblica: la ‘guerra santa’ contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.
Per cogliere il senso profondo di questa trasformazione è necessaria una minima dilatazione analitica dell’arco temporale dell’ultimo decennio del Novecento. Occorre includervi la riflessione strategica che negli Stati Uniti ha fatto prontamente séguito alla conclusione della Guerra fredda e al crollo dell’impero sovietico. E’ una riflessione nel corso della quale la superpotenza americana prende piena coscienza del fatto che ha vinto l’ultima guerra mondiale, e che si tratta della vittoria più importante di tutta la sua storia. Gli Stati Uniti sono ormai la sola superpotenza politica e militare del pianeta, in grado di presidiarlo con il suo potenziale bellico e le sue tecnologie informatiche in continuo sviluppo.
Quattro sono a mio parere le tappe fondamentali del processo di ‘mutazione globalistica’ della guerra di cui occorre tenere conto, corrispondenti a quattro eventi bellici: la guerra del Golfo del 1991, la duplice guerra nei Balcani, svoltasi a più riprese dal 1991 al 1999, la guerra in Afghanistan iniziata nel 2001 e mai finita, la guerra contro l’Iraq, iniziata nel 2003 e anch’essa formalmente non conclusa. Si tratta di eventi bellici che si sono svolti tutti – la circostanza non può essere considerata casuale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico – in un’area relativamente ristretta del pianeta, che include i Balcani, il Medio Oriente e l’Asia centromeridionale, dalle regioni caucasica e caspica sino ai confini occidentali dell’India e della Cina.
Alla nozione di ‘guerra moderna’ assegno qui il duplice significato che ho sopra enunciato. La guerra moderna è, per un verso, una guerra fra Stati sovrani che accettano per via pattizia di sottoporre le proprie attività belliche a disciplina giuridica, dando vita al diritto internazionale di guerra nelle forme inizialmente previste dal jus publicum europaeum e accordando notevole rilievo alle attività diplomatiche. Per un altro verso la guerra moderna è la guerra che, in quanto uso unilaterale della forza militare da parte di uno Stato, viene bandita dal diritto internazionale. Essa viene sostituita dalla competenza di un organo sovranazionale – il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – cui è attribuito il monopolio dell’uso della forza a garanzia della sicurezza collettiva, dell’ordine e della pace. La proscrizione della guerra come atto di aggressione (salvo l’uso della forza a puro scopo difensivo) e la sua ‘messa in forma’ giuridica convivono di fatto in un regime di doppio registro normativo – che ricorda da vicino la giustapposizione canonica di jus ad bellum e jus in bello -, non privo di gravi incongruenze, come è emerso clamorosamente sia dall’attività del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia (16), sia dalla recente pretesa delle forze di occupazione angloamericane in Iraq di processare leader politici e militari iracheni per crimini di guerra.
All’espressione ‘guerra globale’ attribuisco un significato complesso che non può che rinviare ad una teoria generale della ‘nuova guerra’ nel contesto dei processi di integrazione globale oggi in corso: una teoria che è in gran parte ancora da scrivere. Per mio conto propongo, in chiave puramente congetturale, le seguenti determinazioni concettuali.
3.1. Globalismo geopolitico
‘Globale’ la nuova guerra è anzitutto in senso geopolitico, trattandosi di un evento bellico despazializzato e senza limiti di tempo. La guerra antica, come abbiamo visto, era una guerra rigidamente ancorata ad uno spazio territoriale, anche a causa della scarsa mobilità dei suoi attori, ed aveva un inizio ed una fine temporalmente definiti. Anche la guerra moderna, pur con la sua notevole dilatazione geografica e temporale, resta una guerra nettamente riferita alla spazialità territoriale (che nelle due guerre mondiali tende a includere sempre più anche gli oceani e il cielo), poiché uno dei suoi obiettivi principali è la conquista di aree territoriali (statali) ben definite. E ben definiti sono i soggetti internazionali del conflitto, che sono sempre Stati nazionali sovrani, giuridicamente qualificati come tali e rappresentati dalle proprie autorità politico-militari e diplomatiche. La guerra viene formalmente dichiarata e la pace altrettanto formalmente sottoscritta entro un quadrante temporale trasparente e internazionalmente controllabile.
Al contrario, la guerra globale non è una guerra fra Stati sovrani. E’ condotta all’insegna di una strategia che il suo attore principale – gli Stati Uniti d’America – orienta verso obiettivi universali come la sicurezza globale (global security) e l’ordine mondiale(new world order), e non verso la conquista di spazi territoriali da occupare stabilmente e annettere in qualche forma al proprio territorio. Nel caso dell’attacco della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava si assiste addirittura ad una ‘guerra dal cielo’ nella quale gli attaccanti si servono di una rete di monitoraggio satellitare e di vero e proprio spionaggio informatico che fa da contrappunto elettronico della guerra. Essi possono così ignorare totalmente la dimensione territoriale, limitandosi a bombardamenti selettivi da una quota così elevata da evitare la minima perdita di vite umane (statunitensi).
Come mostrano documenti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, sin dal fondamentale Defense Planning Guidance del 1992 (17), l’interesse che viene perseguito con la forza delle armi è la stabilità dell’ordine mondiale in un quadro di accresciuta interdipendenza dei fattori internazionali, e di elevata vulnerabilità degli interessi dei paesi industriali. Si tratta di garantire agli Stati Uniti e ai loro alleati il libero e regolare accesso alle fonti energetiche, anzitutto al petrolio e al gas combustibile, l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi ed aerei e la stabilità dei mercati mondiali, in particolare di quelli finanziari, impedendo nello stesso tempo la proliferazione delle armi biologiche, chimiche e nucleari. Si tratta insomma di garantire lo sviluppo dei processi di globalizzazione in un quadro di elevata e crescente asimmetria politica ed economica delle relazioni internazionali. La stabilità globale deve essere garantita senza toccare i meccanismi di distribuzione mondiale della ricchezza che scavano un solco sempre più profondo fra i paesi ricchi e i paesi poveri.
In particolare dopo l’11 settembre la guerra globale non viene rivolta contro uno Stato o una alleanza militare fra Stati, e neppure contro un nemico precisamente individuato. A più riprese gli Stati Uniti individuano e minacciano una serie di nemici, in parte identificati con le organizzazioni (non statali) del global terrorism, in parte denunciati come appartenenti ad una lista di ‘Stati canaglia’ (rogue states) – Somalia, Sudan, Libia, Siria, Iran, Corea del Nord, etc. – da considerare meritevoli di un attacco militare per ragioni insindacabili. Si tratta di Stati ai quali la massima potenza mondiale, sostituendosi all’intero complesso delle istituzioni internazionali, nega di fatto la sovranità o riconosce al più una sovranità residuale, da concedere o negare ad libitum. E’ naturale che questo tipo di guerra globale non si esaurisca in un singolo evento bellico – con un inizio ed una fine nel tempo -, ma si sviluppi in un continuum di interventi militari destinati a durare indefinitamente nel tempo e in parte a sovrapporsi fra loro (come è il caso – siamo nel giugno 2003 – delle guerre parallele contro l’Afghanistan e contro l’Iraq, e delle simultanee minacce rivolte dagli Stati Uniti a paesi come l’Iran, la Siria e la Corea del Nord).
Globali in senso geopolitico sono le nuove guerre anche per l’entità delle devastazione ambientali, provocate dalla eccezionale quantità di esplosivo che viene usato, spesso altamente tossico e radioattivo.E’ stato calcolato, ad esempio, che nel corso dei quarantadue giorni della Guerra del Golfo del 1991 è stata utilizzata una quantità di esplosivo superiore a quella impiegata dagli Alleati durante l’intera Seconda guerra mondiale. A giudizio degli esperti, le contaminazioni del terreno, dell’acqua, dell’aria, del mare e dell’alta atmosfera hanno provocato a livello planetario, anche a distanza di molti anni, migliaia di perdite di vite umane, di animali e di organismi vegetali (18).
E si può aggiungere infine che si tratta di ‘guerre globali’ anche per ragioni legate alla globalizzazione informatica: sia per l’informazione televisiva che viene riversata su una platea planetaria facendo delle nuove guerre gli eventi in assoluto più ‘comunicati’ nella storia umana; sia per la rete di monitoraggio satellitare, gestita esclusivamente da potenze anglofone, che in nome della guerra globale contro il terrorismo sorveglia dall’alta atmosfera – e in futuro sorveglierà dallo spazio extraterrestre – i comportamenti e le comunicazioni di tutti i cittadini del mondo attraverso la registrazione dei loro contatti elettronici e dei loro spostamenti, in particolare dei loro viaggi aerei. Dio, scrive la Bibbia, conta i capelli del nostro capo.
3.2. Globalismo sistemico
In secondo luogo, la nuova guerra può essere detta ‘globale’ in senso sistemico, e cioè come guerra egemonica. Questa nozione è stata elaborata da teorici delle relazioni internazionali – in particolare da William R. Thompson (19) – che si sono ispirati alla General System Theory. In questo senso ‘guerre globali’ sono le guerre combattute per decidere chi assumerà la funzione di leadership entro il sistema mondiale delle relazioni internazionali, chi imporrà le regole sistemiche, chi avrà il potere di modellare politicamente i processi di allocazione delle risorse di ricchezza e di potere, e chi potrà far prevalere la propria visione del mondo, il proprio senso dell’ordine, il proprio Dio.
Per identificare senza possibilità di equivoci il carattere egemonico della nuova guerra è sufficiente scorrere alcuni dei documenti più recenti dell’amministrazione statunitense, in particolare il Quadrennial Defense Review Report, diffuso dal Dipartimento della Difesa il 30 settembre 2001. Il documento è stato reso pubblico qualche settimana dopo l’attentato alle Due Torri, ma, salvo alcune minime interpolazioni adattive, è il frutto di una lunga elaborazione precedente l’11 settembre. Nel documento si sostiene che gli Stati Uniti, in quanto global power, sono il solo paese in grado di ‘proiettare potenza’ su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere la propria influenza globale, rafforzando l’America’s global leadership role. E ciò sia per aumentare la propria sicurezza interna, sia per tutelare e promuovere i propri ‘interessi vitali’ sul piano internazionale. In secondo luogo gli Stati Uniti devono mettere a punto una strategia globale che sfrutti i ‘vantaggi asimmetrici’ (asymmetric advantages) di cui essi godono in termini nucleari, di intelligence e di controllo informatico del pianeta. La risposta al global terrorism deve essere impostata in termini militari in modo da fare delle forze armate statunitensi una total force (anche nucleare) che impedisca ai gruppi terroristici e ai rogue States l’uso di armi nucleari, chimiche o batteriologiche. In terzo luogo gli Stati Uniti devono rafforzare il loro sistema planetario di basi militari ed aumentarne il numero nelle ‘aree critiche’ entro le quali si possono affermare potenze ostili agli Stati Uniti (precluding hostile dominations of critical areas). Queste aree sono i Balcani e in modo tutto particolare l’Asia: dal Medio Oriente all’Asia centrale, dal Golfo del Bengala al Mar del Giappone e alla Corea, lungo quello che il documento chiama East Asian Littoral, includendovi anche l’Asia del Sud-Est. Solo controllando militarmente queste aree – in particolare i paesi dell’area caucasica, caspica e transcaspica, come la Georgia, l’Azerbaijan, il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Tagikistan, oltre ovviamente all’Afghanistan e al Pakistan – gli Stati Uniti possono garantirsi il controllo delle risorse energetiche di cui questi paesi abbondano. Se necessario, si dovrà cambiare il regime di uno Stato avversario ed occuparne provvisoriamente il territorio finché gli obbiettivi strategici statunitensi non siano realizzati.
Per quanto riguarda in particolare il Medio Oriente l’obbiettivo principale della strategia statunitense è quello di ‘democratizzare’ con la forza l’intera area, dall’Egitto alla penisola arabica, alla Giordania, alla Siria, all’Iraq e all’Iran. Quest’area, oltre ad essere uno dei più ricchi depositi di risorse energetiche del mondo, è una regione altamente instabile e il crogiolo del global terrorism. Al suo centro sta non solo il conflitto fra lo Stato di Israele e il popolo palestinese ma anche – sfida globale insostenibile – il fenomeno del terrorismo suicida, emblema del rifiuto dei valori occidentali e della resistenza del mondo islamico alla strategia egemonica degli Stati Uniti (20). Il recente progetto della Road Map, messo a punto dal governo Sharon e dalla amministrazione Bush, intende risolvere la questione palestinese in linea con la strategia della ‘democratizzazione’ militare del Medio oriente e cioè proseguendo nell’opera di negazione ‘monoteistica’ della ‘spazialità’ territoriale e dell’identità del popolo palestinese e nella spietata repressione della sua resistenza.
3.3. Globalismo normativo
In terzo luogo la nuova guerra è globale in un senso propriamente normativo, come guerra sovrana e illimitata perché sottratta sia alle norme dell’ordinamento internazionale, sia alle modalità procedurali previste dalle sue istituzioni. E’ una guerra decisa da una autorità che si ritiene, per usare il lessico di Schmitt, fonte sovrana di un nuovo Nomos della terra in una situazione – la minaccia del global terrorism – di eccezione globale permanente. L’intera vicenda che ha visto gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) lungamente preparare e poi sferrare l’attacco contro l’Iraq è all’insegna di questo inedito decisionismo e globalismo normativo. Si è trattato infatti di una condotta bellica non solo illegale, ma radicalmente eversiva dell’ordinamento internazionale. E’ una guerra che si propone di dar vita a un nuovo ordine mondiale – e a un nuovo diritto internazionale – che assuma l’amministrazione degli Stati Uniti come suprema istituzione e fonte normativa internazionale, al posto delle Nazioni Unite e di ogni altra analoga organizzazione.
Ancora una volta è un documento della Casa Bianca – il National Security Strategy of the United States of America del 17 settembre 2002 – a gettare luce su questa inedita prospettiva bellica. Le linee fondamentali del documento riaffermano il diritto dell’amministrazione degli Stati Uniti di qualificare alcuni Stati sovrani, al di fuori di qualunque procedura legale, come Stati da mettere ai margini della comunità internazionale e da fare oggetto di pressioni politiche, di minacce militari e di controlli coercitivi che mirino al loro disarmo. Le stesse Nazioni Unite vengono trattate non come un organismo sovranazionale e una assise universale, ma come una istituzione politicamente e militarmente subordinata alla amministrazione statunitense, da fare oggetto di sistematiche pressioni e porre di fronte a veri e propri Diktat militari: si annuncia apertamente che l’attacco all’Iraq verrà comunque deciso, anche senza una risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Ma il fulcro eversivo del documento è la rivendicazione del diritto degli Stati Uniti a ricorrere alla ‘guerra preventiva’ contro ogni possibile nemico, in totale indipendenza da qualsiasi autorità del pianeta. E’ appena il caso di sottolineare – lo abbiamo del resto ampiamente illustrato nel secondo paragrafo di questo saggio – come il divieto dell’uso unilaterale e preventivo della forza militare è il pilastro che sorregge l’intera struttura della Carta delle Nazioni Unite. La nozione di aggressione – e cioè della più grave violazione dell’ordine internazionale – coincide esattamente con l’uso preventivo e unilaterale della forza da parte di uno Stato. Questa nozione di aggressione è d’altra parte ciò che più nettamente distingue il diritto internazionale vigente dall’etica militare antica e medievale. Come abbiamo visto, sia la ‘guerra santa’ israelitica, sia la ‘guerra giusta’ cattolica legittimano l’uso preventivo della forza contro i nemici del popolo di Dio.
3.4. Globalismo monoteistico
Infine, la nuova guerra è ‘globale’ in un senso che si può dire monoteistico, anzitutto per il costante richiamo a valori universali da parte delle potenze (occidentali) che la promuovono: esse giustificano la guerra in nome non di interessi di parte o di obiettivi particolari, ma di un punto di vista superiore e imparziale e di valori che si ritengono condivisi o condivisibili dall’umanità intera. Il weberiano ‘politeismo’ delle morali e delle fedi religiose è sistematicamente negato dai teorici della guerra globale. Essi contrappongono una visione monoteistica del mondo – in particolare quella biblica e fervidamente cristiana dell’attuale gruppo dirigente degli Stati Uniti, composto da metodisti, anabattisti, presbiteriani, episcopali e luterani -, al pluralismo dei valori e alla complessità del mondo. Dichiarando di combattere l’ideologia disumana e sanguinaria del terrorismo globale in realtà gli Stati Uniti respingono tutto ciò che si oppone all’egemonia del monoteismo occidentale e combattono in modo tutto particolare la cultura islamica che in questo momento tenta di resistere più di ogni altra al processo di occidentalizzazione del mondo al quale si riduce in larga parte ciò che chiamiamo ‘globalizzazione’. E’ la guerra unilaterale delle forze del bene – secondo la retorica elementare di George Bush jr. – contro the axis of evil, l”asse del male’. E’ la ‘guerra umanitaria’ contro i nemici dell’umanità che negano l’universalità di valori come la libertà, la democrazia, i diritti dell’uomo e, naturalmente, l’economia di mercato.
L’uso della forza – qualunque sia il suo obiettivo egemonico, dichiarato o non dichiarato – viene giustificato in nome di una sorta di fondamentalismo umanitario che enfatizza il dovere dei paesi occidentali di tutelare i diritti dell’uomo in ogni angolo della terra, intervenendo se necessario con la forza delle armi. All’universalismo normativo dei diritti dell’uomo deve corrispondere l’universalismo della loro protezione militare, come ha recentemente sostenuto Michael Ignatieff (21). E questo comporta – il punto è decisivo – l’abbandono del vecchio principio vestfaliano della non interferenza negli affari interni degli altri Stati e la proclamazione di un principio opposto: il dovere degli Stati Uniti e delle potenze occidentali di intervenire con la forza tutte le volte in cui lo ritengano necessario per porre fine alla violazione di diritti fondamentali all’interno di uno Stato, se necessario abbattendone il regime politico. E’ il monoteismo imperiale della ‘guerra umanitaria’, sostenuta dal classico assunto ‘cosmopolitico’ del necessario declino del pluralismo delle sovranità nazionali e dell’emergere di un mondo globalizzato sotto la responsabilità e la guida di una sola iperpotenza.
E’ una logica carica di insolubili aporie, a cominciare dal tema della compatibilità dell’uso della armi di sterminio – inclusi i sistemi d’arma illegali come i proiettili all’uranio impoverito, le cluster bombs e i quasi-nucleari fuel-air explosives – con la finalità della protezione dei diritti degli uomini. E’ la questione, cioè, se in nome della (pretesa) tutela dei diritti individuali sia lecito sacrificare la vita, l’integrità fisica, i beni, gli affetti, i valori di (migliaia di) persone innocenti, come è avvenuto in particolare nella guerra per il Kosovo e come sta avvenendo sia in Afghanistan che in Iraq. Né può essere trascurata la questione di quale possa essere l’autorità neutrale e imparziale – l’autorità universalistica, come universalistici si pretende che siano i diritti dell’uomo -, investita della funzione morale, prima ancora che politica, di decidere il sacrificio di persone innocenti. Non si dovrebbe ignorare che la guerra è oggi un evento incommensurabile con le categorie universalistiche dell’etica e del diritto, poiché essa non ha altra funzione che quella di distruggere – senza proporzioni, senza discriminazione e senza misura – i diritti delle persone, prescindendo da una considerazione dei loro comportamenti responsabili. La guerra è in sostanza l’esecuzione di una pena capitale collettiva sulla base di una presunzione di responsabilità penale di tutti i cittadini di uno Stato. Opera dunque secondo una logica particolaristica e discriminatrice, del tutto incompatibile con le premesse del fondamentalismo umanitario.
Si tratta, infine, di giustificazioni della guerra che appaiono regressive rispetto all’intero impianto del diritto internazionale moderno, nel momento stesso in cui ripropongono ‘giuste cause’ dell’uso della forza internazionale secondo la dottrina cattolica e imperiale del bellum justum. Ed è significativo che questa dottrina sia stata ripresa negli ultimi decenni del Novecento esclusivamente da autori statunitensi, in primis dal filosofo e militante sionista Michael Walzer, nel libro, di grande successo, Just and Unjust Wars (22). Walzer si è recentemente distinto per aver scritto e diffuso assieme a sessanta eminenti intellettuali statunitensi un documento, altamente intonato sul piano etico-teologico, in cui si proclama ‘guerra giusta’ la guerra contro l”asse del male’ dichiarata dall’amministrazione Bush contro il terrorismo. Ed è altrettanto significativo che nel suo libro Walzer sostenga che in casi di supreme emergency, quando ci si trovi di fronte a un pericolo “inusuale e orrendo” per il quale si provi una profonda ripugnanza morale perché rappresenta l'”incarnazione del male nel mondo” e “una minaccia radicale ai valori umani”, nessun limite di carattere etico e giuridico può essere rispettato da parte di chi ne sia minacciato. Qualunque mezzo di distruzione preventiva, anche il più terroristico e sanguinario, è moralmente lecito (23).
Universalismo imperiale, dottrina cattolica della ‘guerra giusta’ e mistica biblica della ‘guerra santa’ si sposano qui in una concezione discriminatrice dello spazio globale. Coloro che respingono l’egemonia dei valori occidentali, ricorrendo al terrorismo, sono i nuovi barbari e i nuovi infedeli: sono i nemici dell’umanità contro i quali una guerra terroristica di sterminio, inclusa l’abiezione del lager di Guantanamo, non può che essere approvata dal Dio occidentale. E questo Dio approverà, ovviamente, anche il ricorso alle armi nucleari – strategiche e tattiche – che in violazione del Trattato di non proliferazione gli Stati Uniti stanno perfezionando e producendo in quantità crescenti.
4. Conclusione
Nel contesto dei processi di globalizzazione la logica della guerra sta nettamente prevalendo sulle aspettative della pace. Una potenza egemone è diventata l’alfiere della guerra e oggi minaccia apertamente persino il ricorso al suo potentissimo arsenale nucleare. Nel frattempo il diritto internazionale sta attraversando una crisi molto grave, che è nello stesso tempo causa e conseguenza della paralisi delle Nazioni Unite. Dalla fine del bipolarismo ad oggi gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali non solo hanno usato la forza militare in sistematica violazione del diritto internazionale, ma ne hanno esplicitamente contestato le funzioni in nome di un loro incondizionato jus ad bellum. In queste circostanze il riferimento interpretativo ad un modello premoderno di ordine mondiale – universalistico, monoteistico, imperiale – non sembra fuori luogo.
Se è così, siamo in presenza di una regressione che ci riporta, nel migliore dei casi, agli inizi del secolo scorso, alla situazione precedente allo scoppio delle due guerre mondiali, con il connesso pericolo di una sempre più diffuso ricorso all’uso della forza da parte delle potenze che dominano il mondo. Sta probabilmente per aprirsi un lungo ciclo di nuove guerre – di guerre globali – che né il diritto, né le istituzioni internazionali, nella situazione di crisi in cui oggi versano, potranno fermare o limitare nei loro effetti più distruttivi.
Sembra evidente che un sistema giuridico internazionale può esercitare effetti di ritualizzazione dell’uso della forza – sottomettendola a procedure predeterminate e a regole generali – solo a condizione che nessun soggetto dell’ordinamento possa, grazie alla sua potenza soverchiante, considerarsi ed essere considerato legibus solutus. Dunque, il primo compito dei pacifisti sembra oggi quello di combattere per un mondo multipolare e per un dialogo fra le civiltà del pianeta che consideri le differenze culturali e la complessità del mondo come una preziosa risorsa evolutiva e non come un ostacolo allo sviluppo e alla pace. La ‘lotta per il diritto’, e cioè l’impegno per un mondo meno violento e meno spietatamente diviso fra paesi ricchi e paesi poveri, si profila oggi anzitutto come una battaglia per il politeismo delle fedi, delle culture e delle civiltà.
Note
15. Si veda C. Galli, La guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002.
16. Mi permetto di rinviare nuuovamente al mio Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, cit., pp. 134-63.
17. Sul tema mi permetto di rinviare al mio Cosmopolis. Le prospettive del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1955, in particolare al secondo capitolo.
18. Cfr. T.M. Hawley, Against the Fires of Hell. The Environmental Disaster of the Gulf War, New York-San Diego-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1992, p. 184.
19. Si veda W. R. Thompson, On Global War: Historical-Structural Approaches to World Politics, Columbia (S.C.), University of South Carolina Press, 1988.
20. In questo senso A.M. Dershowitz, Why Terrorism Works. Understanding the Threat, Responding to the Challenge, 2002, New Haven, Yale University Press, trad. it. Terrorismo, Roma, Carocci, 2003.
21. Si veda M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton. Princeton University Press, 2001.
22. Si veda M. Walzer, Just and Unjust Wars, New York, Basic Books, 1992, trad. it. della prima edizione (1977): Napoli, Liguori, 1990.
23. Cfr. M. Walzer, Just and Unjust Wars, New York, Basic Books, 1992, trad. it. cit., pp. 329-51.
(Questo articolo del 2003 è tratto dal sito Jura Gentium)
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(Immagine di Hans Haacke)
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Si potrebbe semplificare dicendo che un tempo si dichiarava guerra in nome di Dio, oggi gli Stati Uniti si propongono senz’altro come Dio. Fa male Zolo ad usare l’aggettivo monoteistico: il monoteismo porta con sè il senso dell’assoluta trascendenza di Dio dal mondo. Quella del new world order statunitense non è una forma di teocrazia, ma di statolatria, cioè la negazione stessa della tradizione religiosa monoteistica. Proprio perchè la globalizzazione del controllo non ha niente a che vedere con l’onniscienza di Dio ma ne è la perversione paranoide e persecutoria, gli Stati Uniti non hanno nemici e alleati, ma in questo momento sono l’espressione storica di ciò che nella Bibbia è chiamato il Nemico del genere umano.
“Quella del new world order statunitense non è una forma di teocrazia, ma di statolatria, cioè la negazione stessa della tradizione religiosa monoteistica.”
La chiesa cattolica non si è mai liberata dal suo temporalismo. Tutta la storia del cattolicesimo è anche storia del potere temporale della chiesa. E tu che sei italiano Valter, lo dovresti sapere abbastanza bene, visto che oggi ancora papa e vescovi vogliono influire sulla legislazione dello stato laico.
Situazione simile negli USA. Quando l’universalismo della fede monoteistica si unisce all’esercizio del potere, che è sempre particolare e di parte, si ottiene la ‘guerra globale’ di oggi.
Mi meraviglio, Andrea. La persuasione è cosa diversa dal potere. Certo che la Chiesa ha fatto di tutto per vincolare l’Impero ad obbedirla, ma non si è mai identificata ad esso, pena il totale tradimento del messaggio evangelico. Infatti la statolatria americana si ispira non al cattolicesimo, ma a una sorta di cristianismo interamente risolto nell’orizzonte mondano, più vicino al messianismo ebraico.
del messaggio evangelico la chiesa ha fatto sovente – oggi, come ieri – carne di porco: la chiesa è essenzialmente potere, un potere innestato su una credenza e perciò un potere del tipo più puro, perché agente direttamente sulle coscienze.
la chiesa è interessata alla perpetuazione della sua versione del monoteismo, contro tutto e tutti, perché significa la perpetuazione del suo potere.
questo si vede nella Storia e ancora oggi.
Zolo spiega bene in che senso intende la guerra “monoteista” attuale.
Anzitutto le tematiche trattate sono molte e con possibili interpretazioni assai divergenti. La filosofia politica contemporanea è in fermento evolutivo, i punti fermi sono a volte poco precisi. Detto questo, io sono un Vicentino (anche se trapiantato a Roma) e ho assistito alle lezioni di Zolo quando ancora studiavo a Firenze. Conosco bene la mia terra e conosco un po’ la persona.
Sarebbe troppo lungo il commento che vorrei fare e mi piacerebbe parlarne con qualcuno in qualche caffè di Roma, tuttavia mi sento di dire che in questo periodo si stanno consegnando alla città di Vicenza concetti e significati troppo seri e importanti per la vera realtà contestuale di quell’area. Chi vorrebbe aerei sfrecciare sopra la propria testa o una possibilità della presenza di qualche bomba vicino la propria casa? Ma lì non c’è solo questo in un ipotetico futuro, c’è molto di più. C’è, e ne cito uno fra i molti, il rapporto fra la pacifica operosità vicentina e un contesto internazionale che è assai lontano dalla consapevolezza degli stessi. Fra le due non c’è fluidità di scambio.
Zolo è una persona in gamba, ha le sue idee che tutti conosciamo, possono piacere o non piacere, ma è curioso, preparato e davvero nobile nell’animo. Ho avuto modo di leggere numerosi libri sull’argomento, non solo di Zolo ovviamente, e l’idea che mi sto facendo è che gli Stati Uniti temano seriamente il fervore economico della Cina, dell’India e, in parte minore, del Brasile, della Russia e pochi altri. La reazione organizzata statunitense appellandosi di continuo alla sicurezza internazionale è basata su un timore. Non mi è mai stato così chiaro come negli ultimi mesi. Consiglio, per dovere di cronaca, un testo interessante curato da Pietro Costa e appunto Danilo Zolo: “Lo stato di diritto”, ediz. Feltrinelli.
@ tashtego
Che la Chiesa sia stata e sia un centro di potere, non lo nego affatto. Ma qui si parla di identificazione tra belligeranza USA e monoteismo cristiano: quando si ha un colpo solo, è meglio non sprecarlo sul bersaglio sbagliato.
Sto più dalla parte di Binaghi: l’anticlericalismo a volte offusca l’obiettività di giudizio e porta a vedere la Chiesa cattolica o la addirittura la fede cristiana (o islamica o più raramente ebraica) come l’origine di ogni male.
I cattolici più integralisti ma non stupidi come Cardini vedono nel piano egemonico USA un progetto di natura protestante ed ebraica estraneo a quello della Chiesa cattolica attuale – obiettivamente: è il caso di riconoscerlo, per non dire della sua estraneità dallo spirito e spesso anche dalla lettera evangelica e anche in parte biblica.
Del resto anche la frase di Zolo: “Il recente progetto della Road Map, messo a punto dal governo Sharon e dalla amministrazione Bush, intende risolvere la questione palestinese in linea con la strategia della ‘democratizzazione’ militare del Medio oriente e cioè proseguendo nell’opera di negazione ‘monoteistica’ della ’spazialità’ territoriale e dell’identità del popolo palestinese e nella spietata repressione della sua resistenza.” che dice?
Idem i riferimenti alla guerra giusta, e alla statolatria e quelli di Walzer, non a caso sionista. E la teoria neocon è stata segnata da un certo tipo di protestantesimo e poi ha avuto un forte influsso sionista, o sbaglio?
La qualifica monoteistica data da Zolo alla guerra o all’egemonia attuale rischia di essere grezza e non all’altezza della sua analisi, che mi piace molto.
Lorenz
A Lorenzo e a Valter
1) L’anticlericalismo nel discorso di Zolo non c’entra nulla.
2) Che nella dottrina cristiana Dio sia infinita trascendenza rispetto al mondo, non c’entra nulla con l’analisi delle retoriche, delle legittimazione ideologiche, di ascendenza religiosa, che dei governanti fanno della guerra, poggiandosi anche sugli interessi di chiese particolari.
3) Si fa sempre più incrollabile in me la convinzione che in Italia vi sia un fenomeno di accecamento preventivo della ragione, non appena si tiri in ballo, in modo critico, la religione cattolica, la chiesa come istituzione, o più in generale la fede. Tutto ciò è naturalmente coerente con il potere temporale che Vaticano e chiesa esercitano in Italia. Un cattolico, oggi, se minimamente fosse fedele allo spirito del vangelo, da un lato, e al processo di secolarizzazione, dall’altro, dovrebbe avere come principale priorità una lotta esplicita, frontale, con le gerarchie ecclesiastiche e la loro pretesa di rendere la chiesa un organo con competenze politiche.
4) Tutto quanto detto sopra non c’entra nulla con l’analisi di Zolo. Ma credo che essa non sia compresa perché si legge un’analisi portata avanti con strumenti concettuali delle scienze sociali come si leggesse un editoriale di Repubblica di qualche “brillante” opinionista come Garsh.
5) Zolo si interessa a: “una regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusi importanti elementi della dottrina ‘monoteistica’ del bellum justum e del suo nocciolo teologico-sacrificale di ascendenza biblica: la ‘guerra santa’ contro i barbari e gli infedeli.” Che cosa vuol dire? Vuol dire che la guerra è un fenomeno complesso, non riducibile a motivazioni puramente “materiali”, ma abbisogna per trovare consenso di “retoriche”, ossia argomenti che la giustifichino. Dove hanno trovato questi argomenti gli uomini dell’amministrazione USA? In una tradizione concettuale che è possibile far risalire al diritto pre/moderno, nella sua configurazione “monoteistica”, ossia influenzata dall’ebraismo, dal cattolicesimo e dal protestantesimo (meno dalla religione musulmana, per questione puramente storiche: gli arabi erano i nemici, ecc.).
Accantonando, per un momento, le retoriche di persuasione e concentrando l’attenzione sul vero movente, affianco alle analisi di Zoilo sopra riportate passi tratti da un un articolo di Michael T. Klare, che compare sull’Internazionale di questa settimana.
“[…]Negli ultimi anni lo stesso presisente George Bush ha usato diverse volte il termine islamofascismo […] in realtà il mondo si trova di fronte a un pericolo molto più concreto e universale: l’energofascismo. Con questo termine intendo la militarizzazione della lotta globale per il controllo delle risorse energetiche sempre più scarse.
L’energofascismo è destinato ad influire sulla vita di quasi tutti gli abitanti del pianeta. Saremo costretti a finanziare o a partecipare alle guerre per la conquista di risorse energetiche vitali, come quella in corso in Iraq. Oppure dipenderemo interamente da chi controlla le fonti di energia, come i clienti del gigante russo Gazprom in Ucraina, Bielorussia e Georgia. O ancora, potremmo trovarci prima o poi sotto la continua sorveglianza dello stato, attento a evitare che il nostro consumo energetico superi determinate quote e a scongiurare possibili traffici illeciti. Non è solo un incubo futurista, ma una realtà […]
Ecco alcuni dei suoi elementi fondamentali
1) La trasformazione dell’esercito statunitense in una forza globale di protezione del petrolio con il compito di difendere le riserve di greggio e di gas naturale cui attingono gli Stati Uniti e di pattugliare i più importanti oleodotti e le maggiori linee di rifornimento del mondo.
2) La trasformazione della Russia in una superpotenza energetica che controlla le maggiori riserve di petrolio e di gas naturale dell’Eurasia, decisa a usare questo vantaggio per esercitare un’influenza politica sempre maggioresu tutti gli stati vicini.
3) La lotta spietata tra le grandi potenze per il controllo delle riserve di petrolio, gas naturale e uranio in Africa, America Latina, Medio Oriente e Asia.
Questa lotta comprende interventi militari ricorrenti, l’incessante creazione e sostituzione di regimi satellite, la corruzione e la repressione sistematiche, il continuo impoverimento della stragrande maggioranza delle popolazoioni che vivono nelle regioni ricche di fonti energetiche.
4) L’intrusione eil controllo dello stato sulla vita pubblica e privata a causa della sempre maggior dipendenza dall’energia atomica. Il ricorso al nucleare aumenterà il rischio di atti di sabotaggio, incidenti e traffici illeciti del materiale fissile.
Questi fenomeni, e le loro conseguenze, costituiscono le caratteristiche essenziali dell’energofascismo globale. Possono sembrare molto diversi tra loro, ma hanno tutti un elemento in comune: il coinvolgimento dello stato nella ricerca, nel trasporto, nella distribuzione dei rifornimenti energetici.
A ciò si accompagna la tendenza ad usare la forza contro chi si oppone alle decisioni delle autorità. Come nel fascismo classico del Novecento, lo stato avrà un controllo sempre maggiore su tutti gli aspetti della vita pubblica e private in nome del cosiddetto interesse nazionale prioritario: l’acquisizione di energia sufficiente per mantenere in vita l’economia e i servizi pubblici, esercito incluso.
L’origine dell’energofascismo si può far risalire ad altri due fenomeni: l’imminente squilibrio tra domanda e offerta di energia e lo storico spostamento della produzione di energia dal nord al sud del pianeta.
[…] Si prevede che la domanda di energia a livello mondiale continuerà ad aumentare, ancora per molti anni, stimolata dallo sviluppo della Cina, dell’India e di altri paesi emergenti. Ma la produzione non riuscirà a stare al passo. Al contario, molti esperti sono convinti che la produzione di greggio convenzionale (liquido) presto raggiungerà il picco massimo -forse già nel 2010 0 2015 -e poi comincerà un declino irreversibile. Le scorte mondiali di altri tipi di combustibile importanti – come il gas naturale, il carbonio, l’uranio – si ridurranno più lentamente, ma cominceranno anch’esse a scarseggiare. Il carbone è la risorsa più abbondante: se si continua a consumarla alla velocità attuale potrà durare un altro secolo e mezzo. Ma se verrà usata per sostituire il petrolio, sparirà molto più rapidamente. Questo ovviamente senza tener conto del contributo del carbone al riscaldamento globale: se non cambierà il modo in cui viene bruciato nelle centrali elettriche, il pianeta diventerà invivibile molto prima che l’ultima miniera di carbone si esaurisca.
Il gas naturale e l’uranio dureranno dieci o vent’anni più del petrolio […]
Queste propsettive preoccupano i leader dei principali paesi consumatori di energia: Stati Uniti, Cina e Giappone e le nazioni europee. Negli ultimi anni questi paesi hanno notevolmente modificato la loro politica energetica e sono tuttavia arrivati alla stessa conclusione: non si può contare solo sulle forze del mercato per soddisfare le richieste di energia a livello nazionale e, di conseguneza, lo stato deve assumersi la responsabilità di svolgere questo ruolo. E’ una delle cause dell’emergere dell’energofascismo.
Un’altra è la nuova geografia della produzione energetica. Un tempo la maggior parte delle fonti di petrolio e gas naturale del mondo si trovava in Nord America, Europa, nella parte europea dell’impero russo.. Non era un caso: le principali industrie energetiche preferivano operare in paesi ospitali, non troppo lontani, relativamente stabili e poco disposti a nazionalizzare i giacimenti privati. Ma quei giacimenti ormai sono quasi completamente esauriti e le uniche regioni in grado di soddisfare la richeista globale si trovano in Africa, Asia, America Latina e Medio Oriente.
Regioni che sono state soggette quasi tutte al dominio coloniale e profondamente diffidenti nei confronti degli stranieri. In molti paesi ci sono gruppi etnici separatisti, insurrezioni che li rendono inospitali per le compagnie petrolifere straniere. Se al risentimento della popolazione si aggiunge la mancanza di sicurezza e un regime spesso instabile, è comprensibile che i leader dei principali paesi consumatori stiano cercando di prendere il controllo. Lo fanno stringendo accordi preventivi con autorità locali compiacenti e, quando necessario, offrendo in cambio la loro protezione militare per garantire che il petrolio eil gas arrivino a destinazione.
In molti casi questo ha portato i principali paesi consumatori ad instaurare specie di protettorati sui maggiori fornitori, come quello ormai consolidato degli Usa sull’Arabia Saudita e il più recente accordo Usa col presidente dell’Arzebaigian, Ilham Aliev. La militarizzazione della politica energetica dei paesi consumatori e il potenziamento della capacità repressiva dei regimi satellite costituiscono le basi dell’energofascismo mondiale
L’espressione più significativa di questa tendenza è stata la trasformazione dell’esercito Usa in forza globale di protezione del petrolio. La sua funzione principale è ormai fare la guerra alle risorse energetiche straniere e sistemi di distribuzine. Questa missione fu delineate per la prima volta dal presidente Jimmy Carter nel gennaio 1980 […] Carter affermò che Washington avrebbe usato “tutti i mezzi necessari, compresa la forza militare” per sventare qualsiasi tentativo di bloccare quel flusso (di petrolio dal Golfo Persico).
Adesso si ritiene che il maggior pericolo per il petrolio dal Golfo Persico sia costituito dall’Iran. Teheran ha minacciato di fermare il passaggio delle petroliere attraverso lo stretto di Hormuz in caso di attacco aereo americano contro i suoi impianti nucleari.
Quando fu enunciata per la prima volta la dottrina Carter mirava a difendere il Golfo Persico…negli ultimi anni, tuttavia, i politici statunitensi sono arrivati alla conclusione che gli Usa devono estendere la protezione a tutte le principali regioni produttrici di petrolio nel mondo in via di sviluppo.
Questo modo di pensare,condiviso da democratici e repubblicani, ha governato le scelte strategiche di Washington dalla fine anni 90. Il presidente Bill Clinton è stato il primo ad estendere la dottrina Carter[…]ha stretto rapporti militari con i governi dell’Arzebaigian, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan.
Più di recente il presidente Bush ha esteso la portata della dottrina Carer all’Africa occidentale …particolarmente importante è la Nigeria, dove la produzione si è notevolmente ridotta a causa dei disordini nella regione del delta del Niger. Per scongiurare un’interruzion edei rifornimenti, il dipartimento della difesa statunit sta fornendo consistenti aiuti militari all’esercito nigeriano e sta collaborando al pattugliamento del Golfo di Guinea. […]
Gli Usa sono i maggiori consumatori mondiali di petrolio: un barile su 4 è destinato a loro.
I soldati e i marinai proteggono soprattutto gli oleodotti e le rotte marittime verso Usa e alleati come Giappone e paesi Nato.
Uno dei maggiori consumatori mondiali di petrolio è il Pentagono: nel 2005 ha usato 134 milioni di barili quanto l’intera Svezia.[…]
E’ facile prevedere che i responsabili della politica estera statunitense ricorreranno sempre più spesso all’esercito per superare la resistenza delle popolazioni interessate[…]
I paesi ricchi di energia sono pochissimi […]sono in una posizione invidiabile…spinta agli estremi, questa tendenza può portare a vere forme di condizionamento politico: il venditore decide di fornire solo se l’acquirente accetta determinate richieste politiche. Nessun paese ha abbracciato questa strategia con maggior vigore ed entusiasmo della Russia di Vladimir Putin. […]
Molti cittadini e organizzazioni stanno cercando di trovare una risposta sensata e democratica ai problemi causati dall’esaurimento delle risorse…La maggior parte dei governi, tuttavia, sembra decisa a risolvere le difficoltà con un maggior controllo da parte dello stato e un uso maggiore della forza militare. se noin ci opporremo a questa tendenza, l’energofascismo potrebbe essere il nostro futuro.” (Michael T. Klare, Alternet, Usa)
Andrebbe ricordato il discorso tenuto da Urbano II sul sagrato della cattedrale di Clermont, di cui si hanno poche ma certe testimonianze. E’ vero, nel 1095 il Papa seppe fare breccia nei cuori di una ‘classe dirigente’ infiammata dalle apocalissi medievali: il ritorno di Cristo in Terra Santa è una preoccupazione che unisce George W. Bush ai grandi baroni tedeschi e francesi di allora. Il punto è che nel primo dei due testi di Zolo non ci sono ulteriori indicazioni sulle cause delle Crociate, oltre alla decifrazione di questa teologia cattolica rigorista, militarista, fondamentalista. Ma se dobbiamo ragionare da pragmatici, e se decidiamo di riconoscere che le motivazioni religiose di una guerra sono narrazioni (immagini che si macchiano di sangue), a maggior ragione dovremmo indicare quali furono le altre cause del conflitto. Già, quali cause? Restiamo nel campo del diritto e della legge. L’Europa del 1096 era una schifezza. Gli arabi la consideravano una sorta di penisola arretrata, un posto esotico abitato da gente zotica e villana, che presto o tardi sarebbe stata schiacciata nella morsa del jihad. Il Diritto nel sistema post-carolingio era una chimera, una giustizia privata, con le sue logiche ricadute in materia di economia di rapina, saccheggi e malversazioni. Era un potere verticistico e piramidale per modo di dire, meglio definirlo irrazionale, sgangherato; sorta di buco nero che stava divorando la società feudale. Un’Europa povera e violenta, dominata dalle sopraffazioni. Urbano II interviene in questo contesto, sbagliando tragicamente, certo, perché scatena una guerra che durerà secoli, fino alla fine del Duecento. Quindi il giudizio storico sul Concilio di Clermont è uno e uno soltanto: l’orrore. Ma prima che il Papa identificasse brutalmente il ‘nemico’ con gli infedeli che ‘occupavano’ il Santo Sepolcro, prima della foga visionaria e del Dio degli eserciti, sembra esserci stato anche un desiderio di concordia, uno spirito da Westfalia. Nei concili degli anni venti e trenta – sempre nell’XI secolo –, il Papato parlava la lingua della costruzione e guardava con timore alla (prossima) autodistruzione del continente. Fu un tentativo di pacificazione sommaria, certo, ma la “Tregua di Dio” permise al clero di difendersi e servì a ‘proteggere’ almeno qualche contadino e pellegrino disarmato. Rendere conto a Dio del motivo per cui hai sguainato la spada può essere un buona cura omeopatica per nobili, signorotti e fuorilegge che si convertono al momento giusto, in cambio dell’indulgenza plenaria. La formazione delle “assemblee di pace” portò alla creazione delle Leghe, le “istituzioni di pace”, che dovevano riunirsi per scomunicare quanti – tra nobili, feudatari e cavalieri – si lasciavano andare alla violenza. Una sorta di Comunità Europea con il Vangelo al posto dell’Euro (‘l’auctoritas spiritualis’ di cui parla Zolo). Alla Chiesa romana interessava ristabilire la pace, cioè l’Ordine di Dio sulla terra. Sappiamo come finirono i buoni propositi del Papato. Per rimettere le cose a posto Urbano II decise di fare la guerra, una guerra diversa dalle faide che stavano sconvolgendo l’Europa. Una ‘guerra giusta’, una guerra santa. Ma cosa avrebbero potuto essere le Leghe della pace se non si fossero trasformate in Crociate? Se davvero non siamo così aridamente materialisti, proviamo a ragionarci sopra un momento.
@ Maria
Il testo è coerente e interpreta dati indiscutibili, ma mi vien da chiedere: non costa meno agli Usa convincere la propria opinione pubblica ad abbandonare le remore sul nucleare e delocalizzare definitivamente la produzione di energia anzichè inventare guerre sante per il petrolio?
@ Valter
consiglio, a tal proposito, la lettura integrale dell’art, piuttosto corposo, io ho dovuto necessariamente tagliare, c’è una parte che si riferisce propio al nucleare, vediamo se riesco senza troppi refusi a quest’ora…
“Man mano che il petrolio e il gas naturale diventeranno più scarsi, i politici e gli industriali insisteranno per ricorrere al nucleare. Il progetto sarà favorito dalla preoccupazione per il riscaldamento globale, dovuto per lo più alle emissioni di anidride carbonica prodotte dalla combustione del petrolio, del gas e del carbone. Il presidente Bush ha espresso più volte il desiderio di fare maggiore affidamento sull’energia nucleare. E anche altri paesi come la Francia, la Cina, il Giappone, la Russia e l’India hanno in programma di fare lastessa cosa, aumentando il numero dei reattori. Ci sono ostacoli a questo rinascimento nucleare, tra cui il costo stratosferico e il fatto che non è stato ancora trovato un modo sicuro per immagazzinare le scorie. Inoltre, nonostante i miglioramenti introdotti nei sistemi di sicurezza delle centrali, resta il timore di incidenti come quelli di Three Mile Island nel 1979 e di Cernobyl nel 1986. Ci sono due aspetti particolarmente preoccupanti della futura crescita dell’industria nucleare: il possibile passaggio dei reattori nucleari statunitensi sotto l’esclusivo controllo federale e l’eventuale stretta autoritaria per evitare che la maggiore disponibilità di materiali nucleari ne favorisaca il contrabbando con terroristi, criminali e stati “canaglia”.
Immaginiamo che in un futuro l’amministrazione statunitense faccia approvare un emendamento all’Energy Policy act (la legge sulla politica nucleare): il governo federale potrà decidere la costruzione di reattori nucleari, come fa oggi con gli impianti di rigassificazione. Le autorità federali annunciano il progetto di costruire decine o centinaia di nuovi reattori, sostenendo che c’è urgente bisogno di energia. I cittadini scendono in piazza per protestare. le autorità locali si schierano con i dimostranti e si rifiutano di arrestarli in massa. Ma in questo modo sfidano le autorità federali. la guardia nazionale o l’esercito intervengono per soffocare le proteste e difendere i reattori: l’energofascismo entra in azione.
Il ricorso al nucleare, inoltre, richiederebbe un aumento sistematico del controllo dello stato su tutte le persone collegate anche lontanamnete all’energia atomica commerciale. Dopo tutto ogni impianto per l’arricchimento dell’uranio, ogni reattore e ogni deposito di scorie – oltre a tutti i collegamenti tra questi impianti – sarebbe una potenziale fonte di materiale fissile per i terrorsiti, per il mercato nero e per stati canaglia come l’Iran e la Corea del Nord. tutto il personale impiegato in questi impianti, tutti gli appaltatori e subappaltatori, le loro famiglie ei loro amici, dovrebbero essere costantemente sorvegliati per evitare che restino coinvolti in traffici illeciti.
E poi c’è il problema dei reattori autofertilizzanti. Questi impianti producono più materiale fissile di quello che consumano, in generale sotto forma di plutonio. Questo elemento può, a sua volta, essere bruciato nei reattori nucleari per generare elettricità, ma può anche essere usato come combustibile per le armi atomiche. Anche se attualmente i reattori autofertilizzanti sono vietati negli Usa, altri paesi, tra cui il Giappone, li stanno costruendo per ridurre la loro dipendenza dai combustibili fossili e dall’uranio naturale, che è una risorsa limitata. Se la domanda di energia atomica aumenterà, altri paesi saranno costretti a costruire reattori autofertilizzanti. Ma così aumenterà la dipsonibilità di plutonio utilizzabile per la fabbricazione di bombe, il controllo statale su tutta l’industria nucleare.
nota: Michael T. Klare insegna studi per la pace e la sicurezza mondiale all’Hampshire college, Massachussets. E’ autore di “Blood and oil; the dangers and consequences of America’s growing dependence on importde petroleum” (Owl Books 2005)
@ Maria
Grazie, è molto interessante.
Forse è bene ricordare che in Europa ci sono almeno quattro paesi in cui bruciare combustibili fossili ammonta a meno del 10% della produzione di energia elettrica:
1. Norvegia (100% idroelettrico)
2. Svizzera (55% idro., 40% nucleare)
3. Svezia (45% idro., 45% nucleare — nonostante che la Svezia avrebbe deciso una ventina di anni fa di uscire dal nucleare)
4. Francia (80% nucleare, 10% idro.)
Tanto per dare un’idea, la produzione USA di energia elettrica dipende al 70% da combustibili fossili, 20% dal nucleare e 10% idro. L’Italia all’80% da combustibili fossili e 16% idro. In termini assoluti, la Francia produce 1220 TWh di energia nucleare contro gli 800 TWh nucleari degli USA. (Fonti: Eurostat, US DOE, IEA, AIEA)
Questo per dire che: gli Stati Uniti sono così dipendenti dai combustibili fossili che dovrebbero costruire una sessantina di reattori nucleari soltanto per ridurre il peso delle centrali termoelettriche dal 70% al 50%. Se non erro, l’ultima centrale nucleare negli USA è stata costruita una trentina di anni fa: i suoi progettisti sono ora in pensione. Siamo così sicuri che gli USA, anche se volessero, siano in grado di spostare significativamente lo sforzo della produzione di energia elettrica dal petrolio/carbone al nucleare?
Ragazze, siete veramente molto più informate di me.
Archivio il tutto.
Numero dei militari americani impegnati in Europa,
Nel 1989: 315.434
Nel ’90: 287.061
Nel ’93: 145.302
Nel ’97: 107.052
Nel 2005: sotto le 100.000 unità
Entro il 2010: circa 30 mila unità.
Parole d’ordine: ridurre e concentrare.
(Fonte: Heritage Foundation)